Francesco
Riso aveva accumulato intanto le armi in un magazzino da lui tolto a pigione
accanto al convento della Gancia, donde con gli uomini della sua squadra doveva
dare il segno.
Una
leggenda narrò che i frati fossero consapevoli e partecipi della cospirazione;
un'altra che un frate avesse denunciato a Maniscalco gli apparecchi, il luogo
il giorno della insurrezione. E non è vero. I frati non
seppero nulla fino all' alba del 4 aprile; e la denuncia fu fatta dallo agente
segreto Basile, al quale certi Muratori e Urbano, la mattina del 3, ignorando
che fosse
una spia, confidavano ogni cosa. Probabilmente la leggenda nacque dal vedere,
la mattina del 4, un frate col famoso berretto imposto da Maniscalco alle spie.
Si chiamava fra Michele da Prizzi, ma non era della Gancia.
Maniscalco
reggeva in quei giorni il governo, per l'assenza del luogotenente generale
Castelcicala: finse non saper nulla, ma convocò un consiglio di generali. Nella
notte dal 3 al 4 fece circondare il convento della Gancia e le strade adiacenti.
Riso aveva in tutto ottantadue uomini divisi in tre squadre: una di cinquantadue
capitanata da Salvatore La Placa, uomo di grande audacia, s’era radunata in un
magazzino alla Magione; la seconda di dieci, in una casetta nella via della
Zecca; la terza di venti uomini con lui nel magazzino della Gancia. Altre
squadre dovevano adunarsi qua e là; una nel vicino palazzo S. Cataldo, presso
Carlo e Carmelo Trasselli; altra alla Fieravecchia coi fratelli Lomonaco. Si
doveva cominciare con l’impadronirsi del Commissariato e del corpo di guardia
di Porta di Termini, per aprire libero il passo alle squadre di Misilmeri e
Bagheria concentrate alla Guadagna e al ponte delle Teste. All'alba Riso fu
avvertito che erano circondati dalle truppe: non si sgomentò, disse che non era
tempo di ritrarsi: egli avrebbe dato l'esempio: se lo vedevano tremare,
l'uccidessero. E per vedere come stessero le cose, uscì dal suo magazzino.
S'imbattè in una pattuglia di compagni d'armi e soldati: “Chi viva”? – “Viva
il re”! – dicono. – “Viva l’Italia!” –
risponde. Si fa fuoco: un birro, certo Cipollone, cade. Così comincia la
mischia. Riso e quel pugno d'uomini sostengono l’assalto delle truppe regie: Domenico
Cucinotta e Nicola Di Lorenzo salgono sul campanile e suonano a stormo. Accorre
Salvatore La Placa con la sua squadra; cade ferito gravemente: mani pietose lo
raccolgono, lo celano, lo curano. Questo eroico giovane, sottratto così alla
morte, il 27 maggio riprenderà il suo posto di combattimento, e sarà ferito
ancora una volta.
Cadono Michele Boscarello, Damiano Fasitta, Matteo Ciotta,
Francesco Migliore, Giuseppe Cordone, un Randazzo: Riso dopo esser corso al
campanile a piantarvi il tricolore, scende, si batte, cade ferito da quattro
colpi all'addome e al ginocchio; un birro, che qualcuno dice l’Ispettore Ferro,
gli è sopra, gli ruba l'orologio, e gli dà una bajonettata all'inguine.
Qualche ora dopo il combattimento era finito. Per vincere
questo pugno d'uomini, c'eran voluti un battaglione di linea, un plotone di
cacciatori a cavallo, una sezione d'artiglieria, compagni d'armi, gendarmi e
birri; c'era voluto un generale, il Sury; s'era dovuto atterrare una porta con
gli obici, e un obice il tenente Bianchini aveva dovuto portare fin sopra al
convento!
Le
soldatesche si abbandonarono all'orgia del saccheggio e della strage: finirono
a bajonettate uno dei caduti, ancor vivo; uccisero un frate, Giovannangelo da
Montemaggiore, altri ne ferirono; il resto percossero, sputarono, legarono,
trascinarono al comando di Piazza e alla
Prefettura di polizia, insieme coi ribelli presi.
Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.
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