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venerdì 4 aprile 2025

Luigi Natoli: 04 aprile 1860. Intanto le squadre movevano sopra la città, come convenuto... Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

Le squadre raccolte nei dintorni, movevano intanto sopra la città, come era convenuto, credendo potervi entrare di sorpresa; ma s’incontravano nelle soldatesche regie, spedite dovunque. Piccoli e insignificanti scaramucce avvenivano a porta S. Antonino e a porta di Termini: al ponte delle Teste e, più in là, fra S. Maria di Gesù e la Guadagna, dove era fatto prigioniero Giuseppe Teresi, giovane poco più che ventenne, serbato al martirio.
Più gravi fazioni si combatterono ai Porrazzi, a Monreale, a Boccadifalco, a S. Lorenzo.
Ai Porrazzi, la squadra del Badalamenti e del Marinuzzi, fortificatasi in quelle ville, sostenne validamente l’attacco delle truppe, e non potè essere snidata che dall’artiglieria: ebbe feriti, e un morto, Andrea Amorello: a Monreale il maggiore Bosco, uno dei più valorosi ufficiali dell’esercito napoletano dovette fare sforzi incredibili, con la sua colonna, per non venir sopraffatto dalle squadre di Partinico e d’Alcamo; queste condotte dal barone S. Anna, che aveva già sollevato e proclamato il governo libero nella nativa Alcamo: quelle condotte dai fratelli Damiano e Tomaso Giani; il quale ultimo aveva fatto costruire a Partinico due piccoli cannoni di legno. E gli attacchi continuarono più giorni; in uno dei quali, il 12, a Lenzitti, cadevan morti Giuseppe Fazio da Alcamo, giovane ventiduenne, e Pietro Tagliavia e Giuseppe Ricupati di Partinico, e veniva fatto prigioniero e condotto a Palermo Lorenzo Vallone, alcamese; e più tardi, da un caporale dei compagni d’arme, veniva in quei luoghi dissotterrato e trasportato al Castello a mare di Palermo, uno dei due cannoni di legno, abbandonato dagli insorti (l’altro essendo scoppiato al primo colpo): che è forse quello che si conserva al Museo.
Lo stesso Bosco scampò miracolosamente alle fucilate dei fratelli Trifirò.
II villaggio di S. Lorenzo, era stato occupato da un battaglione di fanteria comandato dal maggiore Polizzy, che doveva sbarrare il passo a numerose squadre, di cui il posto telegrafico di Sferracavallo aveva segnalato la presenza fin dal 2. Erano squadre di Capaci e di quelle contrade che s’andavano ad aggregare a quelle di Carini.
La mattina del 3, il prete Calderone in Carini uscito in piazza, col Cristo in mano, aveva chiamato il popolo a raccolta; suonate a stormo le campane, costituito un comitato, col Tondù, coi fratelli Francesco e Antonino Ajello, Antonino Correri, il padre Messeri, Vincenzo Leone, Francesco Cavoli, un Oliveri e altri, si formarono le squadre, che si misero in marcia verso Palermo. A Sferracavallo, ucciso un birro, saputo che una colonna moveva per S. Lorenzo, ripiegarono, e per le campagne, risalirono a Passo di Rigano, dove incontrate altre truppe regie, e attaccate da esse, vennero disperse. Molti fuggirono a Carini; i più furono raccolti e s’unirono ai Colli con la squadra di Carmelo Ischia e Francesco Ferrante.
Il Bruno-Giordano, andato ai Colli la sera del 3, per fornire di munizioni la squadra di Carmelo Ischia, trovata nel ritorno la via sbarrata stimò più opportuno rifare il cammino, mettersi alla testa di quella squadra e di quanti uomini poteva raccogliere, e attaccare i regi. Un primo scambio di fucilate avvenne lo stesso giorno 4; il Bruno guadagnato il quatrivio di S. Lorenzo vi si fortificò, e il 5 e il 6 vi sostenne contro le truppe regie rinforzate di altre compagnie di fanti, di cavalleria e cannoni, vivi e ostinati combattimenti, nei quali la virtù e la grandezza dell’idea prevalsero sul numero: i regi costretti a indietreggiare fino ai Leoni, lasciarono sul campo nove tra morti e dispersi e ventuno feriti, fra cui un ufficiale. I documenti borbonici chiamarono il combattimento del 5 “una vera battaglia”; e non potevan meglio tessere le lodi di quel pugno di valorosi, che per tre giorni tennero in scacco forze maggiori e meglio armate.


Luigi Natoli: Fa parte di: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
Pagine 544 prezzo di copertina € 24,00
Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Copertina di Niccolò Pizzorno
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (Consegna in tutta Italia, consegna gratuita a Palermo).
Disponibile su Amazon e tutti gli store di vendita online.
In libreria presso:
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), La Nuova Ipsa (Via dei Leoni 79).

Giuseppe Ernesto Nuccio: 04 aprile 1860, il massacro nel Convento della Gancia. Tratto da: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano.

Ma ecco che sul campanile, la voce della campana che chiamava i cittadini s’è spenta, e nella scala è uno scalpore di gente che scende a precipizio. Pispisedda si muove alfine con uno sforzo grande e scorge al sommo della scala a chiocciola alcuni armati. Avanti a tutti ecco Gaspare Bivona e Filippo Patti che scendono guardinghi, curvi, i fucili nella destra. A mezzo la scala si fermano indecisi, quindi, uno dietro l’altro, piegandosi, s’imbucano per una piccola porticina.... L’ultimo, prima di entrare, guata intorno. “Vanno nel soffitto” dice Pispisedda, e torna indietro, scende, attraversa il corridoio; occhieggia oltre gli usci delle celle. I sette monaci sono tuttavia addossati in un angolo, sgomenti, con gli occhi di traverso sull’uscio donde verrà la morte.... Frate Giovannangelo è anche lui nella sua cella e sta ancora a pregare; ma è sereno ora, come aspettando la morte. E Pispisedda corre ancora verso giù. La campana della porta del convento suona alla disperata e quando tace segue il rombo del cannone e il crepitìo delle fucilate.
E Pispisedda scende a precipizio. Perché? Dove va? Non sa nulla, non ha deciso nulla. Non può star più fermo, altrimenti gli scoppia il cuore. Ecco, gli par di scorgere don Ciccio Riso fatto gigante e combatter da solo con un esercito infinito e uccider soldati a montagne....
E Pispisedda corre ancora, impazzato, alla ventura, senza mèta. Eccolo già al piano terreno; attraversa il corridoio; travede il cortile, la porta mezzo sfondata; e, presso la porta, Francesco Riso attorno ad alcuni morti. Pispisedda avanza istintivamente: Francesco Riso carica a stento il fucile; sta per prender la mira; s’ode uno scroscio! una scarica lo coglie, trempella, arranca con le braccia e si piega su se stesso.
Un urlo altissimo segue la sua caduta e fa arretrare Pispisedda. Ecco, ecco i soldati che dànno addosso alla porta, Pispisedda arretra sempre più.... e la porta sobbalza sotto i colpi, si squarcia e l’orda dei soldati irrompe urlando, nel cortile.
Pispisedda balza come un capriolo, rifà il corridoio, s’imbuca per la porticina segreta, e via per Terrasanta, a lanci come un gatto. Presso la panetteria tumultua un nugolo di soldati, ferendo e bastonando i monaci urlanti e gementi; ma Pispisedda non s’arresta, urta, spinge, balza su uno, due soldati, avventando pugni e morsi, infine taglia il gruppo, e, rapidissimamente, come una saetta, balza fuori attraversando altri gruppi di soldati....
Egli si sentiva ora, nell’animo, uno sfinimento grande, come se morta fosse per sempre la bella speranza ch’egli avea curata giorno per giorno con fervore sempre più acceso. E lo prendeva ora il vivo desiderio di morire. Perchè non s’era fatto uccidere là accanto a Francesco Riso ch’era caduto magnificamente come il più bello e il più glorioso paladino? E Pispisedda chiudeva gli occhi; ma il vento portava fino a lui, laggiù, un crepitìo attenuato, come di fucilate esplose dentro il chiuso.
E il ragazzo abbrividiva; intravedendo, con un tremito spasmodico, l’orda dei soldati scagliatisi come un nembo di procella dentro il convento e dilagar per le scale e per i corridoi e le celle, colpendo con le baionette i monaci genuflessi a pregare e gli insorti appostati presso le soglie o negli angoli.
Non potendo resistere all’angoscia, Pispisedda se ne rivenne verso la Gancia.
Salvatore La Placa, nello stesso momento in cui don Ciccio Riso saliva sul campanile, s’era buttato, con la squadra della Magione, in via Vetriera, per riunirsi a quelli ch’erano dentro Terrasanta; ma trovando la via sbarrata dal capitano Chinnici e dai compagni d’arme, anzichè indietreggiare aveva tentato di sfondar la compagnia. Così era cominciato un attacco. Nello stesso tempo Sebastiano Camarrone e Giuseppe Aglio si erano buttati sotto l’arco piccolo di Santa Teresa attaccando e facendo sbandare una compagnia di soldati. Ma Salvatore La Placa, colpito da una fucilata, s’arrovesciava mezzo morto sull’acciottolato. I compagni d’arme sorretti da nugoli di soldati, avanzavano sempre e quelli delle squadre badavano a tener testa sparando.
Salvatore La Placa era caduto fra due fuochi! Se giungevano i soldati lo finivano a baionettate. Ma tosto uscivano da una casetta alcuni palermitani pietosi e lo sollevavano e lo recavano dentro. Aveva uno squarcio nel petto e il sangue abbondava. Bisognava farlo ristagnare; e quelli spaccavano una gallina viva e la premevano sulla ferita.
- Per questo, quando nella fuga avevo cercato riparo dentro la casetta, mi fecero tirar diritto, dicendo che ci avevano un ferito. Era dunque La Placa il ferito – disse Pispisedda.
Sbucaron nella piazzetta del Cavallo marino e don Gaetanino tacque. Porta Felice era chiusa da una folla di soldati e anche il tratto di via Toledo, che correva da Porta Felice a piazza Marina, ne era zeppo.
E venivano altri cittadini a sorbire il caffè e a gettar rapidamente altre notizie: don Ciccio Riso era caduto col ventre squarciato da tre palle e col ginocchio spezzato. Il birro Ferro, vedendolo cadere, gli avea avventato un colpo di baionetta. Dei compagni di Francesco Riso, il primo a cadere ferito era stato Giuseppe Cordone; sporgendosi oltre la porta di Terrasanta per meglio tirar sulla truppa, una palla gli avea trapassato il collo. Il convento e la chiesa erano stati saccheggiati; feriti i monaci fra David, fra Luigi, fra Giovambattista, fra Venanzio; percossi tutti gli altri e i soldati s’eran bevuto nel convento più vino che avevano potuto e avean fatto man bassa di tutto: arraffando ogni oggetto degli altari, delle celle, della sagrestia e delle cantine; usando delle tonache dei frati come di sacchi.
Pispisedda scattava ad ogni racconto di nuova infamia e, infine, non riuscendo a durarla chiamò don Gaetanino per allontanarsi.


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato a Palermo durante la rivoluzione del 1860. La rivoluzione vissuta e narrata dai ragazzini palermitani.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919. Impreziosito dalle illustrazioni dell'epoca di Alberto della Valle.
Prefazione del dott. Rosario Atria.
Pagine 522 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna in tutta Italia, consegna gratuita a Palermo). 
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online.
In libreria presso: 
La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro) Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Via dei Leoni 79).

Luigi Natoli: E venne l'alba del 4 aprile... Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

E venne l’alba del 4, dopo una notte che dovette parer lunga alle anime, aspettanti fra le armi il segnale convenuto. Avevano esse il presentimento che il loro segreto era stato tradito?
Forse l’ebbe Francesco Riso, l’aveva avuto anzi qualche giorno prima, quando all’avvocato Pennavaria aveva detto “Ho dato la mia parola, e sebbene son persuaso che nel pericolo mi abbandoneranno, non la ritiro”. Egli ignorava che il convento era bloccato: e nessuno, vedendo tanto apparecchio di milizie, lo avvertì anzi dicesi che nella stessa notte, da qualcuno che mancò al convegno, il Maniscalco fosse stato avvisato dell’imminente rivolta, con un biglietto scritto a matita colorata, che ancora si conserverebbe all’Archivio di Stato fra le carte della polizia. A me non costa; ma fu detto da persona che ebbe l’agio di vedere documenti dell’Archivio, che ora è vietato.
Poco prima dell’alba, Riso mandò qualcuno a esplorare la vicina piazza della Fieravecchia dove doveva essere sparato il mortaretto: il messo la trovò deserta, il che parve cattivo indizio, e scorò qualcuno; ma fu un baleno. Alle cinque del mattino, Riso mandò sul campanile della chiesa Nicola Di Lorenzo e Domenico Cucinotta con bombe all’Orsini, appostò là altri compagni, e si avviò con alcuni de’suoi alla porta d’uscita. Al suo apparire una pattuglia di compagni d’armi in agguato gridò: – Alto, chi va là? – Rispose: – Chi viva? – Viva il re! –Viva Italia! – ribattè il Riso, e tirò due colpi di fucile, che uccisero il soldato Cipollone. Fu il segno dell’attacco. Il Di Lorenzo ed il Cucinotta suonano a stormo le campane; il Riso corre al campanile, e piantata la bandiera tricolore, ritorna giù a sostenere il fuoco: cadono Giuseppe Cordone, Mariano Fasitta, Matteo Ciotta, Michele Boscarello e Francesco Migliore. Agli spari e allo scampanio, accorre per la Vetriera la squadra della Magione: Sebastiano Camarrone e Giuseppe Aglio, audaci, girando sotto l’arco piccolo di S. Teresa, respingono un plotone di soldati; ma invano. Cade Salvatore La Placa, ferito al petto, e raccolto da pietosi e celato, scampa così all’eccidio. Guaritosi appena, corse poi a raggiungere le squadre, combattè il 27 maggio a Porta Carini, e fu ferito alla gamba.
La squadra della Zecca, uscita anche essa, trovatasi di fronte al grosso della truppa, e non potendo affrontarla si disperse.
Tra il fumo, gli spari, gli urli, parte della squadra ripara nel convento. Il Riso grida energicamente: “Coraggio; la città sta per insorgere; sostenetemi tre ore di fuoco, e saremo salvi”.
E intanto le campane squillavano sulle fucilate, e pareva chiamassero disperatamente la città, che o impreparata o sgomenta non si moveva, e lasciava compiere il sacrificio; squillavano, terribile voce di libertà, non ostante la sconfitta. ll generale Sury appunta i cannoni contro il campanile per far tacere le campane: atterra la porta del convento con gli obici, e allora i regi, fanti, cacciatori, artiglieri, compagni d’arme si lanciano all’assalto. Per snidare gl’insorti, il tenente Bianchini porta a braccia un obice sul piano superiore del convento. Gl’insorti si sbandano: Giuseppe Virzì e Bartolomeo Castellana, sbarazzatisi delle armi, si buttan dall’alto e si rompono le gambe: raccolti da buona gente e occultati, e dopo alcuni giorni portati all’ospedale come muratori precipitati da una fabbrica, così scamparono alla strage. Francesco Riso, colto da quattro palle al ventre e al ginocchio cade. La sua caduta mette fine alla resistenza.
Padroni del convento, le soldatesche del pio re si sfogarono in inutili violenze e col saccheggio. Uccisero di piombo il padre Giovannangelo da Montemaggiore; ferirono i frati David da Carini, Luigi e Giovambattista da Palermo e Venanzio da Sampiero; gli altri schiaffeggiarono, percossero, sputarono; depredaron tutto quel che trovarono, perfino il vasellame sacro, disperdendo le ostie consacrate nelle quali pur credevano. Caddero in poter loro alcuni insorti: testimoni oculari narrano di un birro, che rubato l’orologio al Riso, caduto per terra, lo ferì di baionetta all’inguine; e di un altro che finì ferocemente un giovane insorto ferito e impotente a muoversi.
Il Riso, posto sopra una carretta, fu trasportato all’ospedale di S. Francesco Saverio; ove giunto, all’infermiere Antonino Gallo, che scrivendone nei registri – come per legge – nome, paternità, gli domandava della professione, rispondeva: “Congiurato”; e non intendendo l’altro, e ripetendo la domanda, egli riconfermava: “Congiurato: cospiratore per la libertà del mio paese”.
Gli altri insorti presi, feriti, pesti, legati a due a due in catena coi frati, stretti fra gendarmi, fanti, compagni d’armi, furono trascinati parte alla prefettura di polizia, parte al comando di Piazza, dove ora è il tribunale militare; ed ivi trasportati anche i due cannoncini di ferro esagonale, lance, bombe, fucili trovati nel magazzino, e dicono, un cannone di legno, la cui esistenza è però fieramente contestata da testimonianze assai gravi. Vani trofei di una vittoria ottenuta col tradimento, per forza di numero, della quale la Giustizia segnava nei suoi libri la vicina irrevocabile vendetta.


Luigi Natoli: Fa parte di: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
Pagine 544 prezzo di copertina € 24,00
Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Copertina di Niccolò Pizzorno
Il volume è disponibile:
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