La rivoluzione siciliana del 1860 non incominciò il 4
aprile; cominciò lo stesso giorno in cui il principe di Satriano entrò in
Palermo a ristabilirvi l'autorità regia; perchè quando i cannoni salutarono il
bianco vessillo dai fiordalisi, che s'innalzava là, dove per sedici mesi era
sventolato il tricolore, l’anima siciliana vinta, non doma, riprese il suo
posto di combattimento nel mistero delle cospirazioni. E per dieci anni,
vestale della libertà, alimentò nel segreto e tenne viva la lampada sacra della
patria; alla quale, ostie volontarie, Nicolò Garzilli immolò la dolce e
pensosa giovinezza; la austera nobiltà, Francesco Bentivegna; la pugnace
baldanza, Salvatore Spinuzza: nomi degni di perpetua ricordanza, quanto ogni
altro, cui anche le storie per le scuole non mancano di rendere onore.
Nessuna regione d'Italia stese in quei giorni una rete di
cospirazioni così vasta, e pur così salda e così infaticabile, che da Palermo
si stendeva a Messina, a Catania, a Trapani, ai minori centri dell'Isola, e,
oltrepassando il mare, stendeva ancora i suoi fili a Malta, a Genova, a
Torino, a Firenze, a Marsiglia, a Parigi, a Londra. Noi avemmo una emigrazione
di grandi nomi e di gran cuori, sparsa da per tutto; la quale, stretta intorno
a Mazzini o a Cavour, i due astri maggiori, poteva essere divisa da ideali di
forme; ma era unita, oltre che dalla comune origine e dalla comune sorte,
nell'ideale più urgente e più alto della liberazione dell'isola e della sua
fusione con la patria italiana.
Qualunque tentativo o moto ideato o attuato
in Sicilia ebbe la sua preparazione contemporaneamente e concordemente nei
comitati dell'isola, e in specie di Palermo, e in quelli dagli esuli costituiti
dovunque si trovavano due siciliani.
È null'altro che una vanità attribuire a questo o a quello
il vanto o la priorità di una iniziativa. Una era la mente, uno il cuore, uno
il braccio; e questa unità era formata di tutte le menti, di tutti i cuori, di
tutte le braccia della nostra gente, dovunque sparsa, vigile sempre nella
speranza, incrollabile nella fede, indomita nell'insuccesso.
Per dieci anni la nostra rivoluzione fu un insuccesso
materiale, e una lenta conquista morale: anche il moto del 4 aprile si presenta
come un insuccesso; ma fu invece il cominciamento della vittoria: la sua preparazione
era tale, che una prima sconfitta non avrebbe più potuto arrestare o allentare
la marcia trionfale della rivoluzione. Essa ebbe un potente ausiliare nella
polizia; che in nessun luogo e, forse, in nessun tempo fu così cieca, feroce e
inumana contro il reato politico, come fra noi. Essa alimentò, coltivò, crebbe
l'odio seminato da Ferdinando II, e lo accumulò sul capo di Francesco II; un
re mite e umano, destinato, come Luigi XVI, a pagare i delitti compiuti dai
suoi avi. La polizia si impersonò in un uomo: Maniscalco; che più realista del
re, era un fanatico dell'assolutismo. Ma i suoi subalterni lo sorpassarono:
Pontillo, Desimone, Carrega, Baiona, Sorrentino, Malato rappresentano ciò che
si può immaginare di più bestiale; e la birraglia che li accompagnava aveva la
voluttà del misfare. Non si può leggere, senza impallidire di orrore, il
racconto della gesta che l’ispettore Baiona e tre gendarmi, i cui nomi erano
tre rivelazioni: Tridente, Tempesta e Scannapicco, compievano nel Cefalutano
per appurare il nascondiglio dello Spinuzza.
Il Baiona
aveva inventato strumenti di tortura, che fatti conoscere all'Europa da
Giovanni Raffaele levarono un grido di indegnazione. La paura, il sospetto,
divenuti metodo di governo, empivano le carceri di presunti rei di
cospirazione, che erano sottoposti a sevizie inaudite, delle quali molti
serbarono le stimmate per tutta la vita. Quelle inflitte a Salvatore La Licata,
arrestato pel tentativo del Campo, costrinsero lo stesso procuratore generale
Pasciuta a intervenire, sebbene senza frutto; e l'arresto medesimo del La
Licata è un esempio dei metodi scellerati della polizia....
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Nella foto: Salvatore Maniscalco.
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