La sera del 15 luglio 1820,
la via Toledo sfolgorava di luce, formicolava di gente. Era l’ultimo giorno di
quel famoso “Festino” di Santa Rosalia, padrona di Palermo; che per la
singolarità degli apparati, per la magnificenza degli spettacoli chiamava a
Palermo una folla di isolani e stranieri.
In fondo alla via, sul
limite della piazza Marina, torreggiava in un nembo di luce e d’oro il “Carro”,
sul quale tra nuvole di bambagia spiccava il simulacro di Santa Rosalia. Era
questa l’attrattiva maggiore del “Festino”; oggetto di meraviglia per quanti
venivano alle feste; che spesso, anzi, venivano appunto per vedere il “Carro”.
Era una macchina che oltrepassava d’altezza gli ultimi piani delle case della
via Toledo: costruita sopra una solida piattaforma, a vari ripiani in forma di
tempietti, che s’andavano restringendo, e terminavano in cima con l’immagine
della Santa.
Quella sera la folla era
maggiore, e aveva un aspetto più gaio. Negli occhi, nei gesti, v’era come il
riverbero di una gioia, che non si sa né si può nascondere: v’era una
irrequietezza, come di chi aspetti una letizia, che sa, e che tarda a venire.
Gente si fermava, barattava saluti e parole, con vivacità di tono e di gesti: i
più espansivi si abbracciavano. Qua e là si formavan crocchi e capannelli; che
si allargavano e ostruivano il passaggio: ma ecco una fiumana d’altra gente
fender la folla, urtare, scomporre il crocchio, trascinarne parte con sé.
Curiose fiumane di giovani
e vecchi, di frati e preti, di cittadini e di soldati, a braccetto, o tenendosi
per mano, affratellati da un sentimento di gioia, che traluceva dai volti,
canticchiando e battendo il passo, avevano sul petto, sulle risvolte delle
vesti, sulla tonaca una coccarda nera rossa e turchina: alcuni vi avevano
aggiunto un nastro giallo con l’aquila siciliana stampata in nero.
Tutta la via Toledo
formicolava di queste fiumane, che si raggiungevano, si fondevano, formavano
una massa rumorosa, mobile; che scendeva giù, verso la piazza Marina, si
fermava dinanzi al “Carro”; guardava in su, l’immagine della “Santa” librata fra
le nubi, sulla cui veste candida e luminosa svolazzava un nastro nero, azzurro
e rosso. E allora gridavano:
- Viva Santa Rosalia!
Una voce aggiunse:
- Viva la
Costituzione!
Parve il razzo aspettato
per dar fuoco alle polveri. Da tutte le bocche proruppe quel grido: - Viva la
Costituzione! –; e così terribile che ne tremarono i vetri delle case vicine;
migliaia di mani sventolarono in aria cappelli e fazzoletti: il grido si
propagò, risalì per la via Toledo, più alto, più entusiastico: la città
trasaliva, scossa da quell’irrompere di un sentimento lungamente represso; e
pareva che i suoi polmoni si allargassero, come bevendo un’aria nuova e più
pura.
Il giorno innanzi, 14, con
la feluca di padron Catalano era
arrivata da Napoli la grande notizia della rivoluzione, e aveva prodotto un
senso di lieto stupore, destando liete speranze. Rivoluzione? Proprio? Se ne
domandavano i particolari, che passando di bocca in bocca s’ingrandivano,
prendendo proporzioni e atteggiamenti eroici.
Dalla strada Toledo veniva
un vero esercito di sotto-ufficiali, e soldati e cittadini a braccetto, con la
coccarda tricolore sul vestito. Venivano preceduti da un ufficiale, gridando:
- Viva la Sicilia! Viva la
costituzione! Viva l’indipendenza!
Al loro passare le
confratie, e le corporazioni artigiane che si recavano al Duomo per prendere
parte alla processione di Santa Rosalia, sollevavano ed agitavano gli
stendardi, i gonfaloni; e dalle finestre, dai balconi, dai marciapiedi, la
folla univa il suo grido a quello dei dimostranti; le donne sventolavano i
fazzoletti, gli uomini battevano le mani e agitavano i cappelli; tutti accesi
dallo stesso entusiasmo. Ordinato, solenne, grandioso, fra lo scintillare delle
lampade e dei lampioni, il corteo procedeva verso il palazzo reale. Pareva
celebrasse il trionfo dopo una lunga guerra, e assaporasse i frutti di una
vittoria tanto più grande e strepitosa, quanto improvvisa. Nessuno dubitava che
la Sicilia riavesse il suo parlamento, da parecchi anni soppresso con la frode;
e che le nuove libertà darebbero al regno novello splendore...
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