La creazione del campo di Gibilrossa, decisiva per lo svolgimento dell’impresa garibaldina, fu il capolavoro del La Masa. Lanciando proclami magniloquenti, come era sua natura, organizzava squadre, faceva proclamare la dittatura di Garibaldi, eleggeva governatori. Raccoglieva così a Gibilrossa più di tremila uomini. La Masa battezzò queste masse 2° Corpo dell’Esercito Meridionale, Cacciatori dell’Etna, e nel linguaggio comune furono chiamati «picciotti», perchè giovani quasi tutti.
Alle 3 del mattino La Masa scese a Misilmeri; Garibaldi volle essere informato, e poco dopo salì sul colle, dove le squadre del La Masa lo accolsero con tale entusiasmo, che egli ne ebbe lietezza. Dopo, tenuto un consiglio, se fosse il caso di aspettare rinforzi dal Continente o piombare subito a Palermo, e interrogati i capisquadra se avevano fiducia nei propri uomini, ed avutane assicurazione, Garibaldi si fece innanzi sul ciglio del colle, mirò nell’ampia valle la città, e disse: «Domani dunque a Palermo».
Stabilito ciò, Garibaldi spedì un avviso al Corrao, accampato all’Inserra, perché facesse ogni sforzo per entrare a Palermo dal lato opposto. Prima di sera salirono sul colle alcuni ufficiali di marina americani, fra cui un giovane travestito, Michele Amato-Pojero, che portava nascosta una pianta di Palermo con la indicazione delle posizioni borboniche. E quel giorno stesso lo Stato Maggiore borbonico, tratto in inganno dalla finta ritirata dell’Orsini, pubblicava un bollettino, nel quale annunziava che «la banda di Garibaldi incalzata» si ritirava verso Corleone; gli insorti, delusi, si andavano disperdendo. Questo bollettino, avendo parvenza di vero, e nulla il popolo sapendo di Garibaldi, né il Comitato avendo più il tempo di diramare il suo bollettino, diffuse nei più incertezza e timori.
Verso le sette della sera del 26, levato il campo, le squadre e gli insorti cominciarono la discesa pei dirupi, che durò circa cinque ore. A mezzanotte, ordinatisi, cominciarono a marciare innanzi le squadre col La Masa, poi i volontari. Ordine rigoroso non fumare, non accendere zolfanelli, tacere, non far rumore. Bisognava assalire di sorpresa gli avamposti e impedire che dessero l’allarme. Due incidenti turbarono la marcia: un cavallo fuggì e fu creduto un assalto di cavalleria; la colonna ondeggiò, ma fu un istante; si riconobbe il fatto e se ne rise. Più grave l’altro incidente: i giovani di una squadra, non avvezzi a disciplina, ardendo di sete, giunti alle fresche sorgenti della Favara, si fermarono a bere, impedendo e ritardando la marcia. Accorse Bixio, irruento secondo la sua natura, e cominciò a percotere gli assetati, che stavano per rispondere con pari violenza: ma sopravvenuto La Masa, li frenò, e si risentì col Bixio; corsero fiere parole; ma l’intervento di Sirtori placò le ire. Riordinate le schiere, e postisi alla testa, come guide, trenta garibaldini comandati da Ludovico Tuköry, si riprese il cammino.
Il Comando generale borbonico, sicuro della ritirata di Garibaldi, inseguito dal Von Meckel, non aveva provveduto alla difesa di questo punto. Le sue forze erano concentrate a ponente, dove erano fin allora avvenuti gli scontri. Aveva soltanto dislocate due compagnie con due cannoni a S. Antonino, che dominavano il crocicchio formato dalla via dei Corpi Decollati, (ora corso dei Mille), e lo stradone di S. Antonino (ora via Lincoln); al crocicchio innanzi Porta di Termini aveva posto una barricata con una compagnia; gli avamposti avevano fortificato sul Ponte dell’Ammiraglio e su quello vicino detto delle Teste, scaglionando mezzo squadrone di cavalleria, in una strada detta del Secco, diagonale fra Sant’Antonino e lo stradale dei Corpi Decollati; Garibaldi sapeva tutto ciò.
Necessaria dunque la sorpresa per entrare nel cuore della città. Ma i picciotti delle prime squadre, tutti della provincia, giunti alle prime case credettero essere arrivati a Palermo, e levate alte grida tirarono qualche fucilata, a cui i regi destatisi risposero con una scarica, chiamando alle armi. Avvenne un attimo di disordine. Qui i picciotti si sparpagliarono, alcuni salirono nelle case, il che produsse un rigurgito della seconda squadra; ma Tuköry si slanciò coi trenta volontari sul ponte, Bixio spinse la 7^ compagnia Carini a sorreggerlo; e questo esempio, le rampogne dei capi, la voce potente di fra Pantaleo che, levato alto il Cristo, corse fra le fucilate, trascinarono come un torrente i picciotti. Lo stradale è guadagnato: ma al crocicchio bisogna fermarsi, pel fuoco incrociato da S. Antonino, ove i regi fuggiaschi si sono concentrati, e da mare dove si è impostata una fregata napoletana. Il momento è tragico: soltanto l’audacia può guadagnare la giornata.
Il Nullo allora, colto l’istante, sprona il cavallo e salta la barricata: Francesco Carbone, con un balzo vi corre, e vi pianta una bandiera, sedendovi accanto: e dietro a lui Luigi Bavin Pugliese e poi, mescolati insieme, a gruppi volontari della 7^ con Carini, e picciotti tra una cannonata e l’altra.
Sono circa le sei e mezzo del mattino, quando Garibaldi con Türr, con lo Stato maggiore si ferma alla Fieravecchia. E allora la campana di Montesanto comincia a suonare a martello.
Quel primo combattimento ebbe le sue vittime. Primi a cadere furono Pietro Lo Squiglio, Rocco la Russa, Pietro Inserillo delle squadre; furono feriti Raffaele De Benedetto, Tuköry, Benedetto Cairoli, Giorgio Manin, Stefano Canzio, Daniele Piccinini; Bixio è colpito da una palla di rimbalzo.
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