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venerdì 31 maggio 2024

Luigi Natoli: 31 maggio 1860. L'armistizio. Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

Alle sette del 30 del mattino un parlamentario, l’ufficiale Nicoletti, con bandiera bianca, uscendo dal Palazzo reale si presentò al Palazzo di città, latore d’una lettera per Garibaldi. Non essendosi l’ammiraglio inglese rimosso dalle condizioni da lui imposte, che cioè intervenisse a ogni trattativa di tregua il Dittatore, il generale Lanza, costretto dallo stato penoso in cui si trovava, si rivolse al “filibustiere”, che ora chiamava “Sua Eccellenza il generale Garibaldi”, per domandargli se volesse avere una conferenza con due generali napoletani a bordo della nave ammiraglia inglese; nel qual caso bisognava far cessare le ostilità.
Garibaldi rispose non aver difficoltà a conferire, e che mandava ordini per sospendere il fuoco; altrettanto dovesse ordinare il comando generale borbonico: l’armistizio comincerebbe a mezzodì, l’abboccamento avrebbe luogo al tocco: avrebbe fatto accompagnare i generali regi da ufficiali garibaldini, perché non fossero molestati. E fermato ciò, mandò per ogni parte ordini, perché si desistesse da ogni ostilità.
Ma qualche ora dopo questi primi accordi, fu segnalato al palazzo reale che una colonna d’armati si avanzava dalla parte del ponte delle Teste, e si suppose che fossero le truppe di Von Mechel, da quattro giorni cercate invano dai corrieri spediti dal generale Lanza.
Narrammo già come Garibaldi avesse ordinato a Orsini di marciare coi cannoni, simulando una ritirata, per attirar dietro a sé quelle truppe, e lasciare libero a lui il movimento aggirante sopra Palermo. Orsini eseguì abilmente il disegno del Generale. Lasciata Piana dei Greci, concertata una lunga catena di contadini che, con segni convenuti, gli facessero pervenire notizie delle mosse dei Borbonici, per strade ripide e difficili, giunse alla Ficuzza, donde, riposata la piccola colonna fino all’alba, riprese il cammino per Corleone. Qui, approfittando della forte posizione, pensando che un atteggiamento di combattimento avrebbe eccitato le popolazioni a dargli mano forte, piazzò le artiglierie in luoghi eminenti, per cannoneggiare e fermare le colonne nemiche, che lo inseguivano. 
Sopravvenute queste, infatti, Orsini le arrestò con la mitraglia; poi cominciò la ritirata, ordinatamente, cannoneggiando sempre i nemici, che cercavano tagliargli il cammino. La fazione durò più di tre ore, e valse ad assicurare la marcia all’Orsini, che nella sera giunse a Bisacquino. Forte era il paese per bontà di luoghi; ma negossi recisamente di prender le parti della rivoluzione, per mancanza d’armi; pure abbondò di rinfreschi e di incoraggiamenti, e annunciò all’Orsini che Garibaldi era già entrato in Palermo.
Ripresa la marcia verso Chiusa, che fu prodiga di accoglienze; indi verso Giuliana, che, chiuse le porte, si rifiutò di accogliere quei prodi, Orsini, avendo i regi alle calcagne, dovette disfarsi dei cannoni e sotterrare le munizioni, e prender la via di Sambuca, dove ebbe larga ospitalità.
Ma il Von Meckel a Giuliana fu raggiunto finalmente dai corrieri del generale Lanza, che lo richiamavano alla capitale; e stupendosi che Garibaldi fosse in Palermo, quando egli in buona fede, e ingannato dai villani, credeva di inseguirlo e averlo quasi nelle mani: furibondo di essere stato così raggirato: avvilito agli occhi del maggiore Bosco, il quale, intuendo il tranello, aveva consigliato, a Piana, di ripiegare su Palermo; si affrettò a ritornare indietro, sbuffando con bavarica rabbia, e spronando i suoi battaglioni, non meno di lui desiderosi di prendere la rivincita.
Nella eccitazione dell’animo non curò di avvertire il generale in capo della sua marcia; e dopo aver rifatto per buona parte la percorsa strada, piegò per Marineo e Misilmeri; e pel villaggio di Villabate mosse sopra Palermo, giungendo poco prima delle undici, al ponte dell’Ammiraglio, donde quattro giorni prima era entrato Garibaldi.
Nella popolazione si era diffusa da prima la voce che Bosco venisse a rendersi a Garibaldi; e molti trassero alla porta di Termini, per incontrarlo e applaudirlo; cosicché le barricate erette dagli insorti da quella parte, non temendosi alcun attacco, non erano custodite da forze sufficienti. D’altra parte Garibaldi non aveva avuto alcun avviso della marcia di Von Meckel, giacché o per mancanza del corriere o per altra ragione, una lettera spedita da Misilmeri dal capo squadra Crispino Vicari al La Masa, che diceva essere il Von Meckel presso Villabate con attitudine di guerra, non giunse in tempo utile.
All’avvicinarsi della colonna borbonica, forte di quattromila uomini di truppe scelte, con cannoni e cavalleria, e i compagni d’arme del Chinnici, il La Masa accorse con  alcune squadriglie; le quali si spinsero sullo stradone dei Corpi Decollati, e occuparon le case fiancheggianti, dove furono assalite dalla mitraglia e dalla viva fucileria dei Bavaresi; ma non potendo, per la scarsezza del numero, sostener l’urto, ripiegarono, gittandosi nei giardini. Il La Masa, tentò la difesa delle prime barricate; ma non avendo da opporre cannoni ai cannoni, dovette indietreggiare. Intanto la gente inerme che era andata per accogliere fraternamente i regi, sorpresa dall’attacco, si diede alla fuga, gridando: all’armi!; il che fu cagione di panico, giacché i Bavaresi di Von Meckel avevano fama di essere valorosi e crudeli.
Accorsero allora quanti volontari si trovavano al quartiere generale, dietro a Giacinto Carini, slanciandosi per sostenere le squadre e arrestare il nemico entrato già nel famoso crocicchio. Carini, innanzi a tutti, con la sciabola in pugno, montò sulla barricata di Monte-santo, animando i suoi; l’esempio rincorò e ristorò la pugna: ma una palla lo colpì al braccio sinistro, di ferita insanabile, ed egli cade. L’avanguardia dei Bavaresi si spinse nella Fieravecchia; una parte penetrò nel vicolo di S. Cecilia dove Martino Beltrani-Scalia e Saverio Cirivillera l’arrestarono con le loro fucilate: altre occuparono la via Divisi e la piazzetta Aragona.
Quest’attacco, violando la tregua richiesta, non ancora però comunicata al Von Meckel, adirò Garibaldi, che rampognò l’ufficiale borbonico Nicoletti; il quale accorso col generale stesso, arrestò la furia del caparbio colonnello bavarese, che non voleva o non sapeva capacitarsi della tregua fermata. Cessò il fuoco, rimanendo però ciascuno nelle proprie posizioni: i Bavaresi padroni della piazza della Fieravecchia, con avamposti fino a piazza Aragona; i nostri, padroni delle strade e delle barricate adiacenti e delle case circostanti.
Poco dopo, il generale Letizia e il general di marina Chretien, in carrozza, in compagnia di Cenni aiutante di Garibaldi, uscendo da porta Nuova, per la strada di circonvallazione si recarono alla Marina, e s’imbarcarono alla Sanità, nella lancia dell’Hannibal, dove pure imbarcavansi Garibaldi e Crispi.
L’ammiraglio Mundy aveva, come testimoni, invitato a bordo il comandante Lefebre della squadra francese, il comandante Palmez dell’americana e il marchese d’Aste comandante del Governolo; ma, il generale Letizia, salito sulla nave, dichiarò che egli intendeva conferire con l’ammiraglio Mundy, e non con Garibaldi, non riconoscendogli alcuna qualità ufficiale; al che l’ammiraglio inglese rispondeva che ove il Letizia non volesse trattare col generale Garibaldi, egli intendeva rotto ogni negoziato: onde il generale borbonico fu costretto a sottoporre al “filibustiere” le condizioni dell’armistizio; e furon queste, che durasse fino al mezzodì del 31; che ognuna delle parti conservasse le sue posizioni; che si desse facoltà di trasportare i feriti a bordo e di provvedere viveri; infine che “la municipalità rassegnasse un’umile petizione a S. M. il Re, esprimendogli i veri bisogni della Città”. 
Garibaldi udì con pazienza i primi articoli, ma a quest’ultimo sclamò energicamente: – “No! il tempo delle umili petizioni al Re o a chicchessia è passato: la municipalità sono io, e rifiuto tutto !...”
La sdegnosa risposta, maravigliò il Letizia, suscitò una breve disputa, ma Garibaldi non cedendo, si alzò per partire; onde il Letizia pur rinunziando all’ultimo articolo, dichiarò doversi per questo rimettere al generale Lanza. Indi ritornarono a terra.
La notizia della conferenza si era diffusa in un baleno per la città; e una folla immensa, tutto un popolo, “picciotti” delle squadre, volontari, donne, vecchi, signori e plebei si accalcava, si pigiava nella piazza del palazzo di città, su per la fontana, tra le macerie, nella via Maqueda fino e oltre i Quattro Canti. Un bollettino era stato redatto, stampato e divulgato, che aveva commosso e infiammato gli animi. Riferiva che le trattative, contenendo fra i patti una condizione “umiliante per la brava popolazione di Palermo” dal Generale rigettata, erano rotte e il domani si sarebbero riprese le ostilità. Ma la folla voleva vedere il Generale; ed egli si affacciò dal balcone posto nell’angolo del palazzo, dalla parte di via Maqueda; accanto a lui era il maggiore Bosco, andato come parlamentario a portar l’assentimento del Lanza. Un alto e profondo silenzio si fece subito su quella immensa folla, ansiosa e fremente, sopra la quale squillò la bella voce del Generale, come tromba di guerra.
– “Popolo di Palermo, il nemico mi ha fatto proposte ignominiose per te; ed io sapendoti pronto a farti seppellire sotto le rovine della tua città, le ho rifiutate!”.
Un urlo formidabile, tremendo, scoppiò da centomila bocche: – “Guerra! guerra!... grazie, Generale!...” Tutte le mani si tesero a lui: e parve in quel momento che Garibaldi e il popolo non avessero che un’anima sola.
V’erano in quella moltitudine uomini e donne quasi seminudi, scampati all’incendio e alle bombe, che avevan loro distrutta la casa, uccisi i parenti; v’eran vecchi e fanciulli digiuni da tre giorni, senza casa, senza domani; e pure nessuno ebbe un attimo di debolezza; nessuno pensò che della città non sarebbe rimasta una pietra, che la guerra sarebbe stata d’esterminio, nessuno tremò: le rovine e i patimenti e le morti avevano tramutato tutta una popolazione in un esercito di eroi.
– “Guerra! guerra!”
Il maggiore Bosco impallidì e si ritrasse.
Con alacrità indicibile, con un fervore entusiastico tutti si diedero all’opera per rinforzare le barricate esistenti, altre costruirne nei dintorni della Fieravecchia; tutte le case si tramutarono in fortezze: alle ringhiere si posero materassi, nelle stanze si accumularono pietre, sull’orlo dei tetti si ammonticchiarono tegoli, sui fornelli accesi si prepararono caldaie d’acqua, per rovesciare ogni cosa sopra i Bavaresi. Garibaldi spedì un corriere a Fuxa, che si trovava in Bagheria, ordinandogli che, pel domani 31, a mezzodì, riprendendosi le ostilità, assalisse alle spalle la colonna Von Meckel. Il La Masa provvedeva alle deficienze delle squadre; si fabbricava della polvere, si fondevano palle: ma le munizioni non erano adeguate. Garibaldi, sperando nel concorso della nave sarda, mandò il suo aiutante Cenni a chiederne al marchese d’Aste: ma il Cenni fu respinto bruscamente, col pretesto che fosse una spia borbonica.
Nel campo borbonico intanto si apprestavano alla ripresa delle armi col proposito di rinnovare il consueto disegno: si disponeva che una colonna con cannoni, comandata dal generale Wittemback, movesse dal Papireto: un’altra col generale Sury scendesse per Ballarò; la terza, nel centro, guidata dal Landi per Toledo, intanto che Von Meckel si sarebbe avanzato dalla Fieravecchia. Vane disposizioni: la mattina del 31 il colonnello Buonopane manifestò al generale Lanza, che avendo nella notte osservato la fitta rete di barricate, sapientemente distribuite e fortificate e i preparativi che avevan tramutato ogni casa in fortezza, quelle mosse sarebbero riuscite impossibili e fatali alle truppe: e poco dopo un caporale bavarese, recava un dispaccio di Von Meckel, il quale dichiarava di non potersi muovere, per essere da ogni parte chiuso dalle barricate, e aver le truppe esposte a inevitabile macello. D’altra parte in ventiquattr’ore non si era potuto provvedere ai feriti, che ascendevano ora a cinquecentosessanta. Era necessario prolungare l’armistizio; e il Lanza spedì il generale Letizia e il colonnello Buonopane a Garibaldi, per trattarne; ciò che veniva fatto quello stesso giorno, prima che spirasse il mezzodì. Garibaldi ne pubblicava con un proclama, gli articoli convenuti e firmati dal generale Lanza e da Crispi, perché “i termini degli impegni” fossero mantenuti “colla religione di una lealtà degna di noi”.
Si conveniva che l’armistizio durasse ancora tre giorni, che le ostilità si riprendessero dopo denunzia, che il regio Banco fosse consegnato al Crispi come segretario di Stato, e il presidio borbonico avesse facoltà di ritirarsi nel Castello con armi e bagagli; che si continuasse liberamente e con sicurtà l’imbarco dei feriti e delle famiglie e l’acquisto dei viveri, e si contraccambiassero i volontari presi prigionieri al Parco, Rivalta e Mosto (che non si sapeva fosse ucciso) con due ufficiali napoletani.
Questo armistizio fu il preludio dell’altro del giugno, a tempo indefinito, e segnava la fine del dominio borbonico in Sicilia. La rivoluzione si poteva dire finita; incominciava ora l’opera di riordinamento, e la liberazione degli ultimi baluardi dell’assolutismo: e Garibaldi vi si apparecchiava, e scrivendone quel giorno stesso a Bertani, nell’annunziargli quanto si era fatto, sollecitavalo a inviare subito aiuti d’uomini, d’armi, di denari. 



Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
Pagine 544 prezzo di copertina € 24,00
Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Copertina di Niccolò Pizzorno
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