L’esercito borbonico contava il 1 giugno ancora diciotto mila uomini, artiglieria, cavalleria, compagni d’arme; il Castello, e una terza base tra Porta di Termini e la Fieravecchia, dov’era la colonna Von Meckel. Ma questa, come dicemmo, vi era rimasta come imprigionata: e le altre due basi, senza comunicazioni, erano anch’esse chiuse e circondate da una fitta rete di barricate formidabili. Alla difesa delle quali, e pronti anzi all’offesa v’erano cinquantotto squadriglie, comandate da uomini che avevano dato sì luminose prove di coraggio. Potevano ascendere in tutto a poco più di due migliaia d’uomini armati di fucile; che apparivano, forse, assai più numerosi perchè tutto un popolo, sebbene senz’armi, fremeva e s’agitava intorno ad essi. Ma v’erano ancora da quattro a cinquecento dei Mille, fior di valore, nei quali i “picciotti” avevano piena e devota fiducia. Per incoraggiare e per accrescere il numero dei “picciotti”, Garibaldi rivolgeva “ai Siciliani” un proclama, nel quale, pur costatando che “le condizioni della causa nazionale erano brillanti” e che il trionfo era assicurato “dal momento che un popolo generoso respingendo proposizioni umilianti si risolveva a vincere o morire”, raccomandava a tutti di armarsi. “Aguzzate il ferro e preparate tutti i mezzi di difesa e di offesa... Armi, ed armatevi!... Chi non pensa ad un’arma in questi tre giorni è un traditore: e il popolo che combatte fra le rovine delle sue case... non può essere né vile né traditore”.
Nondimeno, non ostante il buon volere, gli entusiasmi, le prove date, se poteva fidarsi sul popolo in quei frangenti, non era da contar molto, per una guerra ordinata e lunga sulla compattezza delle squadre. Esse è vero si erano battute valorosamente in quei tre giorni, e più di trecento uomini di loro eran morti tra le barricate, martiri offerti dal popolo della città e delle campagne, rimasti ignoti e oscuri nella morte, come erano stati nella vita: ma non essendo esse ingaggiate regolarmente con obbligo per tutto il periodo della guerra, la loro forza numerica oscillava sempre, per l’abbandono di molti, specialmente contadini, cui una lunga permanenza riusciva disagevole, in giorni destinati ai lavori dei campi.
E per continuare una guerra, della quale non si potevano prevedere la durata né la sorte, occorrevano forze disciplinate e organizzate militarmente. Il La Masa, forse illudendosi per la generosità dell’animo suo, attendeva a dar loro ordinamenti regolari, e il giorno 3 di giugno, quando si sarebbero dovute riprendere le ostilità, esse erano formate su nove battaglioni, comandati rispettivamente dal barone Giuseppe di S. Anna, dal barone Di Marco, da Vincenzo Caruso, Luigi Bavin-Pugliesi, Ferdinando Firmaturi di Chiosi, Luigi La Porta, Agostino Rotolo, Giovan Battista Alaimo, colonnello Anfossi, con una forza che ondeggiava fra cinquecento, quattrocento e duecento uomini per battaglione; con uno stato maggiore, un numeroso corpo di guide, ambulanze e tutto. A essi il La Masa estese il nome di Cacciatori dell’Etna dato primamente da Garibaldi alle squadriglie che l’incontrarono a Salemi; e il nome pomposo di “Secondo corpo dell’esercito meridionale”; nome che esprimeva, più che un fatto, un desiderio di quell’uomo operoso e di non dubbio patriottismo.
Dei Mille non ve n’erano ancor atti alle armi che circa cinquecento; e di essi poco più della metà avevano ancora un fucile, come testimoniò Nino Bixio; e non avevano neppur uno dei cannoni vantati dai proclami del comitato, ciò che aveva in certo modo deluso e sfiduciato il popolo: sicché se il Comando delle forze borboniche avesse saputa la vera condizione delle milizie rivoluzionarie, certo avrebbe sulla città gittati i suoi diciottomila uomini forti di cannoni e di cavalleria.
Per fortuna, in quei giorni, ricondotti dal Giordano Orsini e accompagnati, da Misilmeri in qua, dal Corrao, che il Generale gli aveva spedito incontro con 150 uomini risoluti, giungevano in Palermo i quattro cannoni che formavano l’artiglieria dei Mille; ed erano stati piazzati dinanzi la fontana Pretoria, per infondere coraggio alla popolazione. Ma il popolo di Palermo, arguto e burlesco pur fra i grandi pericoli, aveva fatto credere ai Borbonici di possedere delle artiglierie; e di fatti di tra le barricate erette la notte del 30 maggio, si vedevano affacciar bocche nere e minacciose, che pareva dovessero vomitar la mitraglia; e non erano che innocui tubi di terracotta per acqua, che i monelli avevan posto lì per spaventare gli avamposti nemici! Sopra un’altra barricata, infilato a una pertica, come una bandiera, avevano innalzato il berretto gallonato di Maniscalco.
Alcuni giorni dopo però, Pasquale Calvi, uno degli uomini del ‘48 più illustri per grandezza di ingegno e novità di idee, portava da Malta sei grossi cannoni e casse di cariche.
Tale era la condizione delle due parti belligeranti: se non che la rivoluzione aveva per sé la fede e gli entusiasmi, ed aveva Garibaldi, che appariva al popolo un dio: la causa regia nessuna speranza e nessuna fiducia in sé; pareva anzi che sentisse già il peso della fatalità che l’aveva condannata. Le paure del Letizia e del Buonopane, che erano partiti alla volta di Napoli per ottenere la sanzione reale e riceverne istruzioni, condannavano il Lanza a una inazione che equivaleva a una sconfitta; giacché accresceva i disagi e l’abbattimento morale delle truppe. Oltre di che era ragione di gravi pensieri la limitazione delle riserve di viveri, quasi esaurite, la impossibilità di far macinare il grano dei magazzini, il difetto di biade, la mancanza di alloggi, il numero dei feriti e degli ammalati che ancor giacevano a San Giacomo, le continue disserzioni.
La sera del 2 giugno, il generale Letizia e il colonnello Buonopane ritornavano da Napoli; e il domani alle dieci, si recavano al palazzo Senatorio, per ottenere da Garibaldi una proroga dell’armistizio a tempo indeterminato, al fine di imbarcare feriti e ammalati: e ottenutala, non senza soddisfazione di Garibaldi, ripartivano alla volta di Napoli, per riceverne istruzioni definitive. E ne ritornavano la sera del 5, con l’approvazione reale della proroga e con la facoltà di pattuire con Garibaldi, soltanto per vedute umanitarie, e senza farvi intervenire “l’imponenza dell’Autorità Sovrana”. Le nuove trattative furono stipulate e firmate la mattina del 6 dai due ufficiali napoletani e dal Dittatore; e sembra che il Lanza non ne fosse stato inteso; onde se ne dolse al Re, credendosi esautorato; e più tardi rovesciò sui due firmatari la colpa degli insuccessi. Premesse le ragioni di umanità, si stabilì che la tregua durasse fino al compimento delle operazioni; completo imbarco degli ammalati e dei feriti; facoltà alle truppe di potere uscire della città o imbarcarsi, senza molestie, con gli equipaggi, il materiale, i cavalli, i bagagli, e tutto che loro appartenesse; scambio di prigionieri; salvo che i sette nobili detenuti nel Castello, rimarrebbero ostaggi fino alla piena e intera uscita delle truppe, né si consegnerebbero ai delegati del Dittatore che al molo.
Queste convenzioni, che liberavano finalmente la città, e suggellavano la meravigliosa rivoluzione, suscitarono entusiasmi, dimostrazioni, sbandieramenti.
Il giorno dopo le truppe regie, in buon ordine, dal Palazzo reale e da porta di Termini, per le strade esterne si concentravano ai Quattro Venti per imbarcarsi...
Pagine 544 prezzo di copertina € 24,00
Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Copertina di Niccolò Pizzorno
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