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venerdì 12 aprile 2024

Giuseppe Ernesto Nuccio: Il poeta Camarrone è vivo! Tratto da: Picciotti e Garibaldini. Romanzo

Passavano ora i condannati fiancheggiati dai tredici cittadini spinti da De Simone e fiancheggiati dai tredici crociferi. Ma i condannati avevan diritta e rigida l’andatura; e levavano alti i piedi quasi tentassero di salir degli scalini: la benda stretta e spessa sui loro occhi doveva far cupo il buio, cupo come la morte imminente. Certo avvertivano quel mormorìo indistinto; forse sentivano su loro gli sguardi rigidi di occhi sbarrati, e camminavano saldi verso la morte.
- Che fanno. Li fucileranno, qui? – si chiedea spasmodicamente Pispisedda. Similmente forse ciascun cittadino si ripetea la medesima domanda, con lo stesso spasimo folle nell’animo.
E quando i condannati quasi toccarono il muro furono disposti in linea orizzontale: una fila nera, cupa come di fantasmi.
S’udì un ordine e la fila nera s’abbassò d’un tratto dimezzata. Pispisedda si rizzava sulle punte dei piedi e sbarrava gli occhi – quasi avesse voluto vincere un sonno pesante – e guardava ostinatamente. I condannati ora stavano in ginocchio. A uno a uno gli accompagnatori e i preti si staccarono, stentatamente e vennero avanti con quella grande croce rossa, sulla tunica nera, che pareva una larga macchia di sangue.
E la fila nera dei condannati parve ingigantirsi, allungarsi infinitamente, come se lo spazio si fosse raddoppiato, come se le case stesse si fossero arretrate improvvisamente.
E si fece un silenzio alto, cupo, come se i cuori stessi si fossero fermati.
E, quasi sbucassero improvvisamente dal suolo, tre file di tredici soldati, uno dietro l’altro, si piantarono nello spazio, di fronte alla fila nera dei condannati.
E il silenzio si fece più alto ancora e su tutti passò rapida, una zaffata di vento ghiaccio che gelò i cuori.
S’udì alle spalle un trotto rapido, alto. Un soldato a cavallo irruppe nello spazio, recando un plico.
Pispisedda non seppe chieder più nulla a se stesso.
Ecco davanti a lui la fila nera, cupa, che doveva essere abbattuta d’un colpo; e non ebbe la forza di serrar gli occhi per non vedere, o di tapparsi gli orecchi per non udire: restò sulle punte dei piedi, irrigidito, con gli occhi sbarrati.
Egli vide, vide i soldati a prender la mira coi fucili; vide l’ufficiale a dar il segno con la spada; vide tre nugoli di fumo scattar da le canne; udì uno scroscio simultaneo e vide che, dopo lo sparo, la prima fila di soldati balzò addietro. E vide altri tredici nugoli di fumo scattar da altre canne di fucili e s’udì un altro scroscio e vide la fila, la fila nera abbattersi di schianto, tutta insieme come se il terreno fosse affondato improvvisamente.
S’udirono alti singhiozzi.
- È vivo, è vivo! – gridò qualcuno a un tratto.
- Il poeta Camarrone, è salvo!
- Ora lo graziano, ora lo graziano!
Un infermiere e un crocifero accorsero.
- Sono vivo! – grida Camarrone tentando di levarsi.
Ma subito, il prete e l’infermiere arretrano. È stato dato un ordine. Altri tredici nugoli di fumo scattano, un altro scroscio e anche l’ultimo martire cade riverso, accanto agli altri colpiti che dànno gli ultimi strattoni tra fiamme e fumo.
- Bruciano, bruciano! Hanno usato le palle infocate! – grida qualcuno, esterrefatto.
- Spegnete, spegnete il foco, assassini! – urla qualcuno. Ed ecco che alcune donne accorrono e versano, pietosamente, secchiate d’acqua e terriccio sui morti. Ma i soldati danno la carica, spingono le donne per far largo ai tre carri recanti le casse da morto.
- Li portano al camposanto, ora.
Il cigolìo e lo stridìo dei carri è rotto soltanto da scoppi di singhiozzi mal repressi.
E Pispisedda tornò a guardare. A uno a uno, i cadaveri vennero gettati nelle vaste casse. Si intravedeva nell’aria un corpo con le braccia, le gambe e il capo penzolanti; e s’udiva il tonfo alto, cupo del cadavere buttato nella cassa. Sulle casse poscia fu gettato un incerato largo; ma l’ultima, ch’aveva cinque cadaveri invece di quattro, mostrava anche sotto l’incerato la forma d’un corpo.
E il tristissimo corteo si mosse.
Come i carri passavano, le donne sbottavano in singhiozzi e mormoravano alto: “O figli, figli, figli!”. E gli uomini, i pochi uomini che avevano potuto resistere, facendosi bianchi e cupi in viso, si scoprivano...



Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1860, al tempo della rivoluzione.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato nel 1919 con la casa editrice Bemporad e arricchito dalle illustrazioni dell'epoca di Alberto Della Valle.
Pagine 520 - prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Il volume è disponibile:
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