Sì, Francesco Riso era morto e correva pel popolo la nuova dell’infamia commessa da Maniscalco su quel popolano finito eroicamente, ma con l’animo straziato. Maniscalco era andato egli stesso più e più volte a sedersi al capezzale di Francesco Riso e, sforzandosi di dare alla faccia una espressione di pietà fraterna e sollecita, aveva cercato d’indurlo a rivelare i nomi dei compagni di congiura.
Ma Francesco Riso era rimasto sempre muto, come una statua. Frattanto era avvenuta la fucilazione delle tredici vittime fra le quali il padre di Francesco Riso.Eppure Maniscalco aveva avuto cuore di tornare a tentar l’eroe, usando una di quelle infami e vilissime astuzie, che, soltanto negli animi degli sgherri e dei tiranni possono germinare: gli prometteva che se egli avesse fatta tutta la rivelazione, avrebbe liberato il vecchio padre innocente.
Ma Francesco Riso, sebbene credesse che il padre fosse ancor vivo, rimase con quelle labbra serrate e con l’aggrottamento delle ciglia, che denotavan manifestamente la repulsione a far da delatore, repulsione più viva dell’attaccamento alla propria vita, più forte dell’amore filiale.
Maniscalco però tornava torvo nell’animo e mellifluo nel viso a sedersi accanto al morente, a succhiargli, come fosse il genio del male, quello che di più puro l’eroe stava per donare alla città sua e alle sue genti; il sagrifizio della vita, dei suoi affetti, sagrifizio consumato giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto.
“Tornerete” diceva Maniscalco, ritessendo cento volte l’insidia “tornerete libero e risanato fra le braccia del padre vostro, nella vostra famiglia e in compenso non dovete che dirmi i nomi di quelli che vi trassero nel male”.
Ma Francesco Riso si rifugiava come in una torre inespugnabile, nel suo grande disdegno; e serrava la bocca e gli occhi: forse vedeva la bandiera, con quei suoi tre colori squillanti, svettar sul campanile della Gancia, mentre i birri e gli sgherri del re Borbone fuggivano incalzati dai cittadini levati in arme dal rombo della campana, che univa i suoi squilli allo sventolìo della bandiera.
Maniscalco però non si perdeva d’animo e spiava il morente; chi sa non rivelasse tutto negli accessi febbrili! Ma, stanco alfine, per sfogar l’odio rabbioso che infuriava nella sua anima contro l’eroe, faceva divulgare pel popolo che Francesco Riso avea rivelato i compagni di congiura; e per dar veste di verità alla menzogna infame, scovava un giudice più tristo di lui e, insieme, tramavano un verbale, nel quale, pure l’animo tremebondo del giudice non potea non dettare queste verità che scottavano: Riso non risponde che di essere egli l’autore del movimento: essere suoi complici tutti i siciliani: essere scopo dei suoi il vedere la Sicilia far parte del regno d’Italia: essere dolente di morire prima che avesse veduta la patria redenta.
Questa la risposta dettata dall’anima salda di Francesco Riso: anima che tuttavia ruggiva dentro il corpo roso da quattro piaghe inciprignite; questa la risposta che il tremebondo giudice non aveva potuto nascondere; ma per favorir l’infamia di Maniscalco aggiungeva che, dopo un momento, il morente avea rivelato i nomi di una parte dei suoi compagni...
Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1860, al tempo della rivoluzione.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato nel 1919 con la casa editrice Bemporad e arricchito dalle illustrazioni dell'epoca di Alberto Della Valle.
Pagine 520 - prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
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