Per favorir l’infamia di Maniscalco aggiungeva che, dopo un momento, il morente avea rivelato i nomi di una parte dei suoi compagni.
A quel modo Maniscalco credeva d’infamar la memoria di Francesco Riso, e, perché nessun cittadino potesse far testimonianza della incorruttibitilità dell’eroe, gli tenne al capezzale, notte e giorno, un birro, il quale doveva vietare a chicchessia d’avvicinarglisi. Ci riuscì invece don Calogero Chiarenza, cappellano dell’ospedale, e, poiché Francesco Riso, lo scongiurava affinchè gli desse notizie del padre, una notte, mentre il birro russava, gli mostrò la copia del Giornale di Sicilia che riferiva la fucilazione dei tredici e quindi del padre suo.
L’anima del morente dovette gridar l’ultimo ruggito di dolore e quel suo cuore grande dovette scoppiare; e dovette provare il più violento odio e il più viscido ribrezzo che uomo provò mai contro quel vilissimo sgherro di Maniscalco. Onde scongiurò il cappellano perché lo fornisse di una pistola: doveva egli, con le sue mani fatte vacillanti, uccidere quel vilissimo.
E due giorni passarono, due giorni nei quali il dolore per la morte del padre straziò e contorse in uno spasimo inenarrabile il morente. Il cappellano recò la pistola che doveva, uccidendo Maniscalco, rompere d’un colpo la catena d’infamie senza nome.
Maniscalco tornò con quella maschera di mansuetudine sul volto e Francesco Riso strinse sotto le coltri la pistola. E come Maniscalco si voltò per allontanarsi, Francesco Riso levò l’arma; ma quelle mani, che aveano saputo impugnare saldamente il fucile contro un’orda innumerevole di soldati, non seppero impugnar a tradimento l’arma contro uno che volgeva le spalle, e ricaddero abbandonatamente. E non passò molto che la rigidità della morte prese l’eroe per sempre.
Pure l’infamia di Maniscalco era stata completa, poiché Francesco Riso era morto col cordoglio vivo di sapersi infamato delatore!
Ma tutti, tutto il popolo che conosceva il cuor dell’eroe, e fremeva per la sua morte, mandava un suo ruggito di vendetta in una epigrafe manoscritta e passata di mano in mano come una piccola face accesa:
A
FRANCESCO RISO
MARTIRE INFELICE DELLA LIBERTA’ DELLA PATRIA
NON SOSPIRI DI LETARGO
NON PIANTI DI VILTA’
MA FIERI GIURAMENTI DI SANGUE
FREMITI DI VENDETTA ATROCE
Nella foto: Lapide posta dalla città il 04 aprile 1861 nel cortile della Gancia.
Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1860, al tempo della rivoluzione.
L'opera è la fedele trascrizione del romanzo originale pubblicato nel 1919 con la casa editrice Bemporad e arricchito dalle illustrazioni dell'epoca di Alberto Della Valle.
Pagine 520 - prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
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