Nelle adunanze di Napoli Giandomenico Romeo di Reggio disse che era tempo d’agire, e ritenendosi giunta l’ora, i Comitati segreti di Reggio e di Messina s’accordarono per insorgere simultaneamente. Però l’impazienza dei Messinesi rese vano il tentativo, perché colta l’occasione che tutti gli ufficiali s’adunavano il 1 settembre a banchetto all’Hôtel Gran Bretagna, i giovani cospiratori si levarono in armi. Ma la sorpresa fallì. Accorsero le milizie, e il numero potè più del valore: dopo qualche ora, messi in salvo i feriti, gl’insorti si dileguarono. Anche il debole tentativo del 2 andò a vuoto. Soldati e birri si abbandonarono a violenze; molti furono arrestati anche innocenti.
Saputosi a Reggio l’accaduto, i cittadini costrinsero il comandante del presidio a innalzare il tricolore italico; e giunto la sera del 3 Giandomenico Romeo con un forte numero di armati, si costituì una Giunta provvisoria con a capo Paolo Pellicano. Questo parve una sfida generale, e mostrò ai liberali di Napoli e di Sicilia che non c’era altra via che la rivoluzione per costringere il Re alle nuove idee. Ma il 4 sbarcarono da due fregate truppe e artiglierie, e non ostante il valore degli insorti, Reggio fu ripresa. Gl’insorti si sbandarono; il Romeo e i suoi congiunti presero la via dei monti, cercati da birri e da paesani allettati dalla grossa taglia imposta sul capo di Giandomenico. Infatti, trovato in un pagliaio, fu brutalmente ucciso, e il capo mozzo fu infilato in una pertica e portato in trionfo a Reggio.
Seguirono processi statali. Degli arrestati in Messina Giuseppe Pulvirenti, l’abate Giovanni Krymy e Giuseppe Sciva furono condannati a morte; ma soltanto l’ultimo fu fucilato. Dei fuggiaschi furono dichiarati fuorbando il Pracanica, il Miloro, due De Mari, il Saccà, e qualche altro, che i contadini aiutarono a salvarsi, e così poterono esulare. Non mancarono arresti di militari, fra i quali i tenenti Longo e Giordano-Orsini, accusati di cospirare coi fratelli Gallo, che furono anch’essi arrestati.
Tuttavia il Re nel novembre fece qualche mutamento nel Governo: l’11 mutò il ministro delle finanze; il 16 licenziò l’odiatissimo ministro Santangelo; indi congedò monsignor Cocle suo confessore, reazionario non meno odiato del Santangelo. Ma non andò oltre.
In quel torno di tempo giunse al Re una petizione firmata da illustri Piemontesi e Romani, fra i nomi dei quali si leggevano quelli di Cesare Balbo, Camillo di Cavour, Carlo Alfieri, Silvio Pellico, Michelangelo Gaetani duca di Sermoneta e Pietro Sterbini, che lo esortavano a seguire l’esempio del Papa e di Carlo Alberto. Ma Ferdinando dichiarò che i suoi avi gli avevano trasmesso potere assoluto, e tale lo doveva trasmettere ai suoi discendenti. Ma giunta a Napoli la notizia dell’insediamento della Consulta istituita da Pio IX, il Comitato promosse il 22 novembre grandi dimostrazioni, e incaricò Rosalino Pilo di andare a Palermo, per suscitarne altre.
E difatti le dimostrazioni cominciarono a Palermo la sera del 27 nel teatro Carolino (oggi Bellini), con grida di Viva il Re! Viva la Lega Italiana! Viva Pio IX! Viva la Sicilia! Si ripeterono poi la mattina dopo nella Villa Giulia, durante il trattenimento musicale, e si rinnovarono la sera.
Il Governo impensierito proibì le dimostrazioni, ma non potè impedire che si coprisse di migliaia di firme una petizione per avere la Guardia Nazionale, nè che la sera del 30 un’altra e più imponente dimostrazione scoppiasse nella piazza della Cattedrale. Le stampe clandestine si moltiplicarono; cartelli veementi apparivano a Messina, a Catania, a Siracusa, ad Agrigento, a Trapani: circolavano poesie suscitatrici di liberi sentimenti, inneggianti all’Italia, alla Federazione italica, alla libertà, alla indipendenza della Sicilia; ne seguivano conflitti e sevizie.
Verso la fine di dicembre, poi, apparve e si diffuse rapidamente in Sicilia, la cosidetta Lettera di Malta, che, fingendo essere brani di una lettera anonima mandata da Palermo per dar ragguaglio degli avvenimenti del novembre, era invece una fiera requisitoria contro il malgoverno borbonico, e concludeva col programma siciliano: indipendenza da Napoli e Federazione italiana. La lettera, che si sapeva scritta da Francesco Ferrara, ebbe effetti pari alla Protesta del Settembrini.
Oramai gli avvenimenti incalzavano: fra i due Comitati di Palermo e di Napoli, riconfermati i patti, e cioè che avrebbero combattuto insieme la comune tirannia e poi ciascuno avrebbe preso il suo posto, si convenne che Palermo sarebbe insorta nel gennaio prossimo e Napoli avrebbe seguito. Gli altri Comitati furono avvertiti.
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