Pispisedda si tenne indietro; quelli bussarono.
- Chi è? – domanda una voce tremula di dentro. Ma i due non rispondono. La porticina s’apre e quelli irrompono dentro.
- Presto; conduceteci al campanile!
Fra Salvatore arretrò a vedere i due armati, poi prese la lanterna e si mise in cammino, avanti. Pispisedda li seguiva alla lontana. Ora salivano la scala. La luce della lanterna, portata con mano tremante dal monaco, balzando e squarciando l’oscurità, mostrava quando la volta, quando le pareti, quando gli scalini e proiettava addietro le tre ombre fuggenti, che lambivano Pispisedda. Il silenzio non era rotto che dallo zoccolìo dei tre. A un tratto Pispisedda, ch’era ancora in fondo alla scala, udì la voce di don Ciccio Riso che veniva dal di fuori:
- Viva l’Italia!
E un’altra voce gridare:
- Viva lu Re!
E tosto due colpi di fucile echeggiarono alti, seguìti da un rotolar incessante di altri colpi. Allora i due urlarono a fra Salvatore: – Avanti! – e spingendolo salirono rapidi.
Pispisedda ebbe un momento d’esitazione: quindi tornò risolutamente indietro per accorrere alla porta dove, già, combatteva don Ciccio Riso. Continuavano gli urli fra lo schioppettìo di cui già tremavano i muri del convento. E Pispisedda giù a precipizio. Ma ecco, incontro a lui uno, due, tre uomini: uno porta una bandiera tricolore, tutti e tre hanno i fucili, salgono gli scalini a balzi, eccoli vicinissimi. Pispisedda li scansa. Quello che porta la bandiera è don Ciccio Riso. Pispisedda ritorna a salire di corsa dietro a quelli, ansimando. In cima alla scala i monaci esterrefatti levano le braccia, fanno largo. Quelli passano avanti di corsa. Pispisedda dietro. Ma fra Giovannangelo lo agguanta esterrefatto.
- Dove vai ? Che succede ? Tu che sai? Parla!
Ma Pispisedda vuol correre al campanile, e si divincola; e il monaco gli grida:
- Sta’ queto! Parla! Tu che sai?
E altri monaci lo accerchiano per aver notizie.
Ma piove di lassù lo scampanare e le grida “Viva l’Italia! Viva l’Italia! All’armi! All’armi!” e colpi di fucili rintronano nell’alto e nel basso, e gli echi s’incrociano rotolando lungo le scale. E dalle scale del campanile qualcuno scende urlando: “Coraggio!” E i monaci s’intanano nelle celle, segnandosi e gemendo preghiere. E come uno grida, tutti gridano; e come uno tace, tutti tacciono.
Pispisedda vuol ridiscendere avendo scorto don Ciccio Riso che balza verso la porta col suo fucile; ma fra Giovannangelo avvinghia il ragazzo e se lo tira in una cella gridandogli sempre:
- Tu che sai, Pispisedda? Come è stato? Donde sono entrati?
Ma Pispisedda s’è buttato dietro i vetri e guarda con occhi spalancati. Sul campanile sventola la bandiera tricolore che don Ciccio Riso avea in mano. Dunque è accorso a piantarla lassù e se n’è tornato a combattere. Ecco il crepitìo delle fucilate è più spesso, rotto da grida, da urli e da gemiti. L’attacco deve infuriare da via Vetriera, perchè di là salgono alti nugoli di fumo bianco.
E infuria anche sul campanile donde scende la voce della campana grande; e donde la bandiera sembra che squilli a gloria con i suoi tre colori fiammanti.
Pispisedda adunghia la cimasa della finestra nel guardare; sì, piccoli nugoli di calcinaccio si staccano dal campanile spesseggianti, e a tratti, delle braccia si sporgono e lanciano bombe....
Ah! ecco Francesco Riso sui tegoli. Che fa? Dio! si getta bocconi, abbranca il fucile, prende la mira verso la via che brulica di soldati e di compagni d’arme e spara. Ad ogni colpo un nembo di fumo bianco lo avvolge, e quando il fumo s’è disperso, Pispisedda lo rivede calmo a caricar l’arma e a riprender la mira e a sparare.
E intorno a lui, laggiù nella strada, infuria la mischia disperata. Pispisedda se n’accorge perchè da ogni parte crepitano le fucilate, squillano le trombe, rullano i tamburi; nella via Vetriera, nella via Alloro, in piazza Marina. E le palle battono come grandine sul campanile, sul tetto, su tutto il monastero, bucando muri, spezzando tegoli, imposte, vetri; sì che attorno a don Ciccio Riso e ai compagni (che ricaricano le armi, prendono la mira e sparano gridando “Viva l’Italia!”) tutto è un crepitìo e un fracasso d’inferno.
- Chi è? – domanda una voce tremula di dentro. Ma i due non rispondono. La porticina s’apre e quelli irrompono dentro.
- Presto; conduceteci al campanile!
Fra Salvatore arretrò a vedere i due armati, poi prese la lanterna e si mise in cammino, avanti. Pispisedda li seguiva alla lontana. Ora salivano la scala. La luce della lanterna, portata con mano tremante dal monaco, balzando e squarciando l’oscurità, mostrava quando la volta, quando le pareti, quando gli scalini e proiettava addietro le tre ombre fuggenti, che lambivano Pispisedda. Il silenzio non era rotto che dallo zoccolìo dei tre. A un tratto Pispisedda, ch’era ancora in fondo alla scala, udì la voce di don Ciccio Riso che veniva dal di fuori:
- Viva l’Italia!
E un’altra voce gridare:
- Viva lu Re!
E tosto due colpi di fucile echeggiarono alti, seguìti da un rotolar incessante di altri colpi. Allora i due urlarono a fra Salvatore: – Avanti! – e spingendolo salirono rapidi.
Pispisedda ebbe un momento d’esitazione: quindi tornò risolutamente indietro per accorrere alla porta dove, già, combatteva don Ciccio Riso. Continuavano gli urli fra lo schioppettìo di cui già tremavano i muri del convento. E Pispisedda giù a precipizio. Ma ecco, incontro a lui uno, due, tre uomini: uno porta una bandiera tricolore, tutti e tre hanno i fucili, salgono gli scalini a balzi, eccoli vicinissimi. Pispisedda li scansa. Quello che porta la bandiera è don Ciccio Riso. Pispisedda ritorna a salire di corsa dietro a quelli, ansimando. In cima alla scala i monaci esterrefatti levano le braccia, fanno largo. Quelli passano avanti di corsa. Pispisedda dietro. Ma fra Giovannangelo lo agguanta esterrefatto.
- Dove vai ? Che succede ? Tu che sai? Parla!
Ma Pispisedda vuol correre al campanile, e si divincola; e il monaco gli grida:
- Sta’ queto! Parla! Tu che sai?
E altri monaci lo accerchiano per aver notizie.
Ma piove di lassù lo scampanare e le grida “Viva l’Italia! Viva l’Italia! All’armi! All’armi!” e colpi di fucili rintronano nell’alto e nel basso, e gli echi s’incrociano rotolando lungo le scale. E dalle scale del campanile qualcuno scende urlando: “Coraggio!” E i monaci s’intanano nelle celle, segnandosi e gemendo preghiere. E come uno grida, tutti gridano; e come uno tace, tutti tacciono.
Pispisedda vuol ridiscendere avendo scorto don Ciccio Riso che balza verso la porta col suo fucile; ma fra Giovannangelo avvinghia il ragazzo e se lo tira in una cella gridandogli sempre:
- Tu che sai, Pispisedda? Come è stato? Donde sono entrati?
Ma Pispisedda s’è buttato dietro i vetri e guarda con occhi spalancati. Sul campanile sventola la bandiera tricolore che don Ciccio Riso avea in mano. Dunque è accorso a piantarla lassù e se n’è tornato a combattere. Ecco il crepitìo delle fucilate è più spesso, rotto da grida, da urli e da gemiti. L’attacco deve infuriare da via Vetriera, perchè di là salgono alti nugoli di fumo bianco.
E infuria anche sul campanile donde scende la voce della campana grande; e donde la bandiera sembra che squilli a gloria con i suoi tre colori fiammanti.
Pispisedda adunghia la cimasa della finestra nel guardare; sì, piccoli nugoli di calcinaccio si staccano dal campanile spesseggianti, e a tratti, delle braccia si sporgono e lanciano bombe....
Ah! ecco Francesco Riso sui tegoli. Che fa? Dio! si getta bocconi, abbranca il fucile, prende la mira verso la via che brulica di soldati e di compagni d’arme e spara. Ad ogni colpo un nembo di fumo bianco lo avvolge, e quando il fumo s’è disperso, Pispisedda lo rivede calmo a caricar l’arma e a riprender la mira e a sparare.
E intorno a lui, laggiù nella strada, infuria la mischia disperata. Pispisedda se n’accorge perchè da ogni parte crepitano le fucilate, squillano le trombe, rullano i tamburi; nella via Vetriera, nella via Alloro, in piazza Marina. E le palle battono come grandine sul campanile, sul tetto, su tutto il monastero, bucando muri, spezzando tegoli, imposte, vetri; sì che attorno a don Ciccio Riso e ai compagni (che ricaricano le armi, prendono la mira e sparano gridando “Viva l’Italia!”) tutto è un crepitìo e un fracasso d’inferno.
E anche il monaco scorge: don Ciccio Riso s’è levato a mezzo ginocchioni, è caduto, si rileva, puntando la destra tuttavia armata....
Nè Pispisedda, nè fra Giovannangelo parlano: tutta l’anima hanno negli sguardi fissi su Francesco Riso.
Ricade, ma è un attimo: si rileva e viene carponi dove più fitto è il crepitìo delle palle e rientra per la finestrucola. Pispisedda balza verso l’uscio serrato; ma un terribile fragore, che squassa il monastero e fa ruinar i vetri tutti, lo caccia addietro.
- È finita! – dice il monaco. – Sfondano la porta a cannonate! – e si butta nell’angolo di fronte al Cristo a pregare.
Pispisedda riprende animo; esce e corre all’impazzata. Per tutto incontra monaci che scappano di qua e di là con le mani levate, invocando. I vetri delle finestre ruinano frantumati dai colpi secchi. Gruppi di armati, neri nei visi e nelle mani, vanno, stretti, curvi, ghermendo il fucile con la destra, scrutando dinanzi, appostandosi alle uscite. Pispisedda capisce che da un momento all’altro, entrando i soldati, la battaglia infurierà su per le scale, lungo i corridoi. E i monaci corrono come impazziti. Alcuni si buttano dalle finestre che dànno sul giardinetto: un gruppo di sette si asserraglia dentro una cella. E Pispisedda corre avanti e sbuca dov’è la scala a chiocciola che mena al campanile; ma s’arresta: don Francesco Riso scende, pallido. Il ragazzo torna indietro e s’addossa al corridoio per far largo. E don Ciccio Riso avanza e ad ogni passo sembra che riprenda animo e fissi dinnanzi a sè il corridoio, come volendo giungervi presto.
- Alla porta, alla porta! – grida sommessamente. – Coraggio! Se dura un altro poco, la città ci aiuterà e vinceremo!
Ma ecco la terribile voce del cannone, e il tremito di tutto il convento, e il ruinar di vetri, e il grido immenso d’un esercito: “Viva lu Re!”.
- Viva l’Italia! – grida don Ciccio Riso, trovando nuova forza per correre.
Nè Pispisedda, nè fra Giovannangelo parlano: tutta l’anima hanno negli sguardi fissi su Francesco Riso.
Ricade, ma è un attimo: si rileva e viene carponi dove più fitto è il crepitìo delle palle e rientra per la finestrucola. Pispisedda balza verso l’uscio serrato; ma un terribile fragore, che squassa il monastero e fa ruinar i vetri tutti, lo caccia addietro.
- È finita! – dice il monaco. – Sfondano la porta a cannonate! – e si butta nell’angolo di fronte al Cristo a pregare.
Pispisedda riprende animo; esce e corre all’impazzata. Per tutto incontra monaci che scappano di qua e di là con le mani levate, invocando. I vetri delle finestre ruinano frantumati dai colpi secchi. Gruppi di armati, neri nei visi e nelle mani, vanno, stretti, curvi, ghermendo il fucile con la destra, scrutando dinanzi, appostandosi alle uscite. Pispisedda capisce che da un momento all’altro, entrando i soldati, la battaglia infurierà su per le scale, lungo i corridoi. E i monaci corrono come impazziti. Alcuni si buttano dalle finestre che dànno sul giardinetto: un gruppo di sette si asserraglia dentro una cella. E Pispisedda corre avanti e sbuca dov’è la scala a chiocciola che mena al campanile; ma s’arresta: don Francesco Riso scende, pallido. Il ragazzo torna indietro e s’addossa al corridoio per far largo. E don Ciccio Riso avanza e ad ogni passo sembra che riprenda animo e fissi dinnanzi a sè il corridoio, come volendo giungervi presto.
- Alla porta, alla porta! – grida sommessamente. – Coraggio! Se dura un altro poco, la città ci aiuterà e vinceremo!
Ma ecco la terribile voce del cannone, e il tremito di tutto il convento, e il ruinar di vetri, e il grido immenso d’un esercito: “Viva lu Re!”.
- Viva l’Italia! – grida don Ciccio Riso, trovando nuova forza per correre.
Pispisedda inebetito, smorto, piantato alla parete, si rizza in piedi, allunga il collo per scorger don Ciccio Riso che scompare laggiù come ingoiato dal buio. Che potrà mai fare lui con pochi altri uomini contro un esercito infinito, contro il cannone che scuote il convento dalle fondamenta?
Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato a Palermo durante la rivoluzione del 1860. La rivoluzione vissuta e narrata dai ragazzini palermitani.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919. Impreziosito dalle illustrazioni dell'epoca di Alberto della Valle.
Prefazione del dott. Rosario Atria.
Prefazione del dott. Rosario Atria.
Pagine 522 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online
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