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lunedì 20 aprile 2020

G.E. Nuccio: La fucilazione delle XIII vittime. Tratto da: Picciotti e Garibaldini.

I due ragazzi si fissarono negli occhi smarritamente: “Perché dentro il Castello avevan bisogno di tredici uomini? Giusto tanti quanti erano gli arrestati popolani?”.
Ma dalle loro bocche non uscì la domanda tormentosa. Si scostarono alquanto e attesero. Dinanzi la porta e sugli spalti scorsero le sentinelle col fucile in ispalla a passeggiar concitate.
A un tratto, venne dall’atrio del Castello un tramestìo e un ronzìo alti, quasi l’avvicinarsi d’una processione salmodiante.
Sulla porta comparve un drappello di soldati a cavallo, seguito da un altro di soldati a piedi, che chiudeva tre file di uomini: a destra, una di preti con una gran croce rossa sul petto; nel mezzo, la fila dei condannati, coperti dal sacco, bendati gli occhi, legate le braccia alla schiena; a sinistra la fila dei tredici uomini chiamati un momento avanti dallo sbirro De Simone tra i quali c’erano lo zoppo e il villanello. Ai fianchi e alle spalle, i soldati a piedi e a cavallo con le baionette inastate.
- Li fucilano! – gemè Pispisedda con un soffio di voce.
Ferraù fece sentire un digrignare sordo.
I soldati avanzavano tutti con le schiene curve, le fronti chine. I condannati, invece, andavano eretti tutti e tredici e con quel loro atteggiamento che urlava ancora la sfida!
Pispisedda e Ferraù si mossero, fiancheggiando il corteo con l’animo straziato, quasi essi stessi fossero portati alla fucilazione.
Il corteo entrò nella via Piedigrotta. Gente s’affacciava spiando dai balconi, dalle finestre e tosto arretrava smarrita. E una dopo l’altra, tutte le imposte, tutte le porte si rinserravano. S’udiva alto ancora il salmodiare tristissimo dei crociferi, e il trepestìo uguale, soffocato s’accompagnava al mormorìo. Poca gente aveva animo di seguire il corteo.
- Don Giovanni Riso – disse qualcuno, con voce strozzata accanto a Pispisedda.
- Il poeta Camarrone – aggiunse un altro.
Così, uno dopo l’altro, a traverso il fitto velo nero, i condannati venivan riconosciuti dalla gente; e i nomi eran mormorati sommessamente come se la voce uscisse dalla gola smorzata dall’ambascia.
- Dove li portano, dove li portano? – gemeva Pispisedda andando cecamente, senza coscienza. Svoltarono a sinistra. Lo spiazzo di Porta San Giorgio era già zeppo di soldati i quali, come il corteo comparve, sospinsero la poca gente addietro, facendo il vuoto dal muro fino alla carraia.
- Qui li fucileranno? – fece Pispisedda, atterrito.
Il drappello dei soldati a cavallo, che precedeva il corteo, si allineò ad arco, dalla proda dell’altro marciapiede al muro delle case, gettando addietro qualche cittadino il quale si lasciava sospingere e quasi schiacciare come se avesse perduto ogni coscienza. Non s’udiva alcuna voce, alcun richiamo, alcuna protesta: parea un gruppo sperso di muti o di mentecatti, con occhi e bocche spalancati e braccia e gambe dinoccolate; ombre addossate le une alle altre, quasi a sostenersi.
Accadeva improvvisamente un fatto talmente straordinario che le menti sconvolte, disfrenate in un arrovellìo di pensieri tumultuanti erano cadute in un assopimento grave.
La realtà del momento era così incomprensibile da perdere i suoi veri aspetti.
- Che fanno? Li fucileranno, qui? – si chiedeva spasmodicamente Pispisedda stringendo il braccio destro di Ferraù. Ma quello, ciondolando, andava avanti e addietro, che pareva un ebbro; un ebbro tutto chiuso in un cupo pensiero.
Passavano ora i condannati fiancheggiati dai tredici cittadini spinti da De Simone e fiancheggiati dai tredici crociferi. Ma i condannati avevan diritta e rigida l’andatura; e levavano alti i piedi quasi tentassero di salir degli scalini: la benda stretta e spessa sui loro occhi doveva far cupo il buio, cupo come la morte imminente. Certo avvertivano quel mormorìo indistinto; forse sentivano su loro gli sguardi rigidi di occhi sbarrati, e camminavano sldi verso la morte.
- Che fanno. Li fucileranno, qui? – si chiedea spasmodicamente Pispisedda. Similmente forse ciascun cittadino si ripetea la medesima domanda, con lo stesso spasimo folle nell’animo.
E quando i condannati quasi toccarono il muro furono disposti in linea orizzontale: una fila nera, cupa come di fantasmi.
S’udì un ordine e la fila nera s’abbassò d’un tratto dimezzata. Pispisedda si rizzava sulle punte dei piedi e sbarrava gli occhi – quasi avesse voluto vincere un sonno pesante – e guardava ostinatamente. I condannati ora stavano in ginocchio. A uno a uno gli accompagnatori e i preti si staccarono, stentatamente e vennero avanti con quella grande croce rossa, sulla tunica nera, che pareva una larga macchia di sangue.
E la fila nera dei condannati parve ingigantirsi, allungarsi infinitamente, come se lo spazio si fosse raddoppiato, come se le case stesse si fossero arretrate improvvisamente.
E si fece un silenzio alto, cupo, come se i cuori stessi si fossero fermati.
E, quasi sbucassero improvvisamente dal suolo, tre file di tredici soldati, uno dietro l’altro, si piantarono nello spazio, di fronte alla fila nera dei condannati.
E il silenzio si fece più alto ancora e su tutti passò rapida, una zaffata di vento ghiaccio che gelò i cuori. 



Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1859-60. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad & figlio nel 1919, impreziosito dai disegni dell'epoca di Alberto della Valle. 
Pagine 523 - Prezzo di copertina € 22,00 - Copertina di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online. 
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour - Palermo)

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