“Vengono!” si ripetè Pispisedda trattenendo a mala pena l’affanno che gli faceva sobbalzare il cuore. “Vengono!”.... E la folla bigia avanzava lentamente dietro la banda che irrideva suonando.
E come passava, i birri, che fiancheggiavano la via, sventolavano alti i berretti, unendo il grido di “Viva lu Re!” a quello dei soldati.
Ed eccoli che sbucano in via Toledo, dove urge la ressa dei soldati. Pispisedda si rizza sulle punte dei piedi e guarda attraverso i compagni d’arme, che lo stringono da tutti i lati. Ecco, davanti a tutti, Giovanni Riso, il povero vecchio; e quindi i monaci, legati a due a due, pesti, sanguinanti sul viso, tratti, sospinti da compagni d’arme, da soldati, da birri, ch’hanno sulla faccia un riso sgranato, un riso feroce di belve satolle. Ecco gli altri arrestati delle squadre di don Ciccio Riso, anch’essi pesti nel viso dov’è dipinta una tristezza infinita, una tristezza senza speranza. A tratti, qualcuno d’essi leva lo sguardo sui balconi serrati e sembra chiedere: “Dove sono i fratelli?”.
Pispisedda si lasciava trarre dall’onda dei soldati che saliva; e don Gaetanino gli veniva a lato tremando tutto, il collo affondato, le spalle aguzze, come ghiacciasse per freddo.
Pispisedda guardava in alto; il cielo era cupo ancora, e i balconi e le finestre serrate conferivano alle case un aspetto cupo e dolente. Pareva a Pispisedda di seguir un esercito predone scagliatosi dentro una città morta.
Allo sbocco di via Argenteria il grido: “Alto, chi va là!” della sentinella suscitò urla di “Viva lu Re!”, che correva per l’aria; ma sembrava respinto duramente dai balconi e dalle case serrate. E, come si placava il clamore della banda e delle grida, s’udiva il tonfo dei passi così alto e cupo, che pareva risonato da una fila di tombe scavate nel sottosuolo.
All’alto della via Pannieri il triste corteo sostò, e Pispisedda potè cacciarsi innanzi e scorgere tra i birri un monaco di Sant’Antonino col fucile e la sacca. “Anche lui un taschettaro”. Ma, a un tratto, si sentì soffocare dall’ansima accresciuta. Aveva scorto, tra i taschettari, quel Basile che egli aveva scontrato nella piazza del Carmine a parlare con i due. Dio! E a colui s’eran confidati quelli?! E non aveva appunto quel birro svelato a Maniscalco il segreto dell’ora e del luogo della sommossa?
E Pispisedda fu preso da un furore pazzo e urtò e spinse per lanciarsi su quello e straziarlo a morsi. Ma, come furono giunti di fronte alla chiesa di San Matteo, la folla si fermò di botto, quindi fu rigettata addietro come se la testa della colonna avesse dato di cozzo in un ostacolo, e come se ciascuno, cozzando, fosse mandato di qua e di là. A un tratto anche Pispisedda si trovò sbalestrato sugli scalini della chiesa.
E di là potè guardare ai Quattro Cantoni dove era più viva la ressa, e donde venìa il gridìo più alto.
Ecco che la colonna degli arrestati restava per un poco sola nel bel mezzo della piazza; essendosi spartita in due la colonna dei soldati che la fiancheggiava. Torno torno, ai prigionieri, pullulavano i birri agitando alte le mani. Che volevano? Che urlavano? Pispisedda scorgeva gli arrestati stringersi compatti e formare come un sol corpo, per difendersi dall’ira dei birri urlanti!
Ma sopravvenne una compagnia di soldati dal basso; e passò rapida spingendo avanti Pispisedda, che, in un attimo, si trovò sbacchiato all’angolo del palazzo Di Rudinì nei Quattro Cantoni. Di là nulla vedeva; ma udiva le voci dei soldati che gridavano: “Avanti, avanti!” e gli urli dei birri indemoniati: “Fucilateli! fucilateli qui e poi bruciateli!... Viva lu Re!”.
Allora Pispisedda si raggricciò e ripensò alla fucilazione di Nicolò Garzilli e dei compagni.
Per quello adunque avean fatto largo al gruppo degli arrestati? E il tumulto continuava pazzo; e sul tumulto gli urli rochi dei birri: “Fucilateli! Fucilateli qui!”.
E ci fu un momento in cui imperò su la folla un silenzio tragico. Pispisedda avvinghiato dalla paura folle d’udir le schioppettate che squarciavano i petti degli arrestati, si tappò gli orecchi con le mani frementi e gli parve d’udire l’ululare feroce di mille lupi pronti a scagliarsi.
Ma a un tratto, la folla riprese l’andare, e Pispisedda togliendosi le mani di su gli orecchi udì il grido dei soldati: “Avanti, avanti, al comando di Piazza!”.
Ecco, certamente i soldati aveano vinto sui birri che volean fucilar gli arrestati. E questi andavano, stretti, compatti, come volessero morire insieme, d’un sol colpo.
Pispisedda si provò a proseguire oltre i Quattro Cantoni, ma fu ricacciato addietro e tornò verso piazza Marina. Scontrò don Gaetanino che correva verso giù, a zig-zag, fra la folla, come un canuccio spaurito, e se lo trasse dietro lungo la strada. Gli parea ormai d’avere il cuore spezzato e la gola rotta.
Ancora la via Toledo rigurgitava di soldati e di birri; e gli sbocchi dei vicoli eran chiusi da compagnie con le baionette innastate, e ancora durava quel vocìo incomposto di gente lieta che può cantar vittoria. Passavano, a quando a quando, coppie di soldati recanti or fasci di lance, or di fucili, ora ceste di bombe o di cartucce, e si scambiavan con i soldati fermi agli sbocchi, saluti e motti commentati da sghignazzi alti.
Ma, a un tratto, al vocìo alto successe un mugolare sordo, e, dal basso della via, apparve una siepe fitta di baionette e una folla d’armati. Ma il mugolare sordo si veniva placando, e s’udiva ora il tonfo dei passi e il cigolo delle ruote d’un carro....
Pispisedda si rizzò e travide, oltre la siepe delle baionette, un cavallo, un carretto, e sul carretto un uomo, poi altri uomini seduti o accosciati....
“Iddu è” dicevano “Iddu è! Cicciu Riso!”
“È ancora vivo?” si domandò Pispisedda fremendo.
Come il convoglio s’avvicinava, il silenzio si faceva più alto. Pareva che la sorpresa, la meraviglia, la paura serrasse le gole di quel popolaccio di soldati e di birri, che or ora aveva vociato urli di vittoria. “Carognoni” imprecava Pispisedda, scorgendo tutte quelle facce sbiancate, sulle quali il riso ebete di poco fa s’era già spento. E ora risonava alto il tonfo dei passi e lo zoccolo del cavallo e il cigolìo delle ruote. E i soldati e i birri arretravano verso il muro.
Pispisedda fece un lancio, e vide il primo ferito che aveva negli occhi un atteggiamento di sfida.
“Iddu è!” esclamò il ragazzo. E attese trepidando e guardando a una a una le facce sbiancate dei birri e dei soldati che arretravano sempre più a ridosso dei muri.
E il carro fu a mezzo la via assiepato dai soldati: Pispisedda si cacciò risolutamente avanti e scorse don Ciccio Riso sul piano del carro tra la siepe di baionette, con quel suo sguardo, ardente, fiero, che pareva investisse come ventata di sfida la folla dei venduti.
Per quel giovane, per quel giovane e pochi altri uomini, tutto l’esercito del Re era stato preso da folle paura; per quel giovane e pochi altri uomini avea tuonato laggiù il cannone! Ma quei soldati e quei birri del Borbone scorgevano nello sguardo di Francesco Riso, ancora il grido di sfida che era di tutto il popolo: come se da dietro le imposte di tutte quelle finestre, e di tutti quei balconi serrati scattassero tuttavia gridi altissimi di minaccia.
Un’ondata di contento investì l’anima di Pispisedda, come se Francesco Riso fosse portato non alla morte, ma in trionfo da un popolo non già spaurito, ma vittorioso.
“Uno, due, tre, quattro, cinque!” contò Pispisedda quando passaron gli altri feriti, sui quali si sferrava l’ira compressa dei birri.
Come il convoglio passò del tutto, Pispisedda e don Gaetanino si allontanarono.
E come passava, i birri, che fiancheggiavano la via, sventolavano alti i berretti, unendo il grido di “Viva lu Re!” a quello dei soldati.
Ed eccoli che sbucano in via Toledo, dove urge la ressa dei soldati. Pispisedda si rizza sulle punte dei piedi e guarda attraverso i compagni d’arme, che lo stringono da tutti i lati. Ecco, davanti a tutti, Giovanni Riso, il povero vecchio; e quindi i monaci, legati a due a due, pesti, sanguinanti sul viso, tratti, sospinti da compagni d’arme, da soldati, da birri, ch’hanno sulla faccia un riso sgranato, un riso feroce di belve satolle. Ecco gli altri arrestati delle squadre di don Ciccio Riso, anch’essi pesti nel viso dov’è dipinta una tristezza infinita, una tristezza senza speranza. A tratti, qualcuno d’essi leva lo sguardo sui balconi serrati e sembra chiedere: “Dove sono i fratelli?”.
Pispisedda si lasciava trarre dall’onda dei soldati che saliva; e don Gaetanino gli veniva a lato tremando tutto, il collo affondato, le spalle aguzze, come ghiacciasse per freddo.
Pispisedda guardava in alto; il cielo era cupo ancora, e i balconi e le finestre serrate conferivano alle case un aspetto cupo e dolente. Pareva a Pispisedda di seguir un esercito predone scagliatosi dentro una città morta.
Allo sbocco di via Argenteria il grido: “Alto, chi va là!” della sentinella suscitò urla di “Viva lu Re!”, che correva per l’aria; ma sembrava respinto duramente dai balconi e dalle case serrate. E, come si placava il clamore della banda e delle grida, s’udiva il tonfo dei passi così alto e cupo, che pareva risonato da una fila di tombe scavate nel sottosuolo.
All’alto della via Pannieri il triste corteo sostò, e Pispisedda potè cacciarsi innanzi e scorgere tra i birri un monaco di Sant’Antonino col fucile e la sacca. “Anche lui un taschettaro”. Ma, a un tratto, si sentì soffocare dall’ansima accresciuta. Aveva scorto, tra i taschettari, quel Basile che egli aveva scontrato nella piazza del Carmine a parlare con i due. Dio! E a colui s’eran confidati quelli?! E non aveva appunto quel birro svelato a Maniscalco il segreto dell’ora e del luogo della sommossa?
E Pispisedda fu preso da un furore pazzo e urtò e spinse per lanciarsi su quello e straziarlo a morsi. Ma, come furono giunti di fronte alla chiesa di San Matteo, la folla si fermò di botto, quindi fu rigettata addietro come se la testa della colonna avesse dato di cozzo in un ostacolo, e come se ciascuno, cozzando, fosse mandato di qua e di là. A un tratto anche Pispisedda si trovò sbalestrato sugli scalini della chiesa.
E di là potè guardare ai Quattro Cantoni dove era più viva la ressa, e donde venìa il gridìo più alto.
Ecco che la colonna degli arrestati restava per un poco sola nel bel mezzo della piazza; essendosi spartita in due la colonna dei soldati che la fiancheggiava. Torno torno, ai prigionieri, pullulavano i birri agitando alte le mani. Che volevano? Che urlavano? Pispisedda scorgeva gli arrestati stringersi compatti e formare come un sol corpo, per difendersi dall’ira dei birri urlanti!
Ma sopravvenne una compagnia di soldati dal basso; e passò rapida spingendo avanti Pispisedda, che, in un attimo, si trovò sbacchiato all’angolo del palazzo Di Rudinì nei Quattro Cantoni. Di là nulla vedeva; ma udiva le voci dei soldati che gridavano: “Avanti, avanti!” e gli urli dei birri indemoniati: “Fucilateli! fucilateli qui e poi bruciateli!... Viva lu Re!”.
Allora Pispisedda si raggricciò e ripensò alla fucilazione di Nicolò Garzilli e dei compagni.
Per quello adunque avean fatto largo al gruppo degli arrestati? E il tumulto continuava pazzo; e sul tumulto gli urli rochi dei birri: “Fucilateli! Fucilateli qui!”.
E ci fu un momento in cui imperò su la folla un silenzio tragico. Pispisedda avvinghiato dalla paura folle d’udir le schioppettate che squarciavano i petti degli arrestati, si tappò gli orecchi con le mani frementi e gli parve d’udire l’ululare feroce di mille lupi pronti a scagliarsi.
Ma a un tratto, la folla riprese l’andare, e Pispisedda togliendosi le mani di su gli orecchi udì il grido dei soldati: “Avanti, avanti, al comando di Piazza!”.
Ecco, certamente i soldati aveano vinto sui birri che volean fucilar gli arrestati. E questi andavano, stretti, compatti, come volessero morire insieme, d’un sol colpo.
Pispisedda si provò a proseguire oltre i Quattro Cantoni, ma fu ricacciato addietro e tornò verso piazza Marina. Scontrò don Gaetanino che correva verso giù, a zig-zag, fra la folla, come un canuccio spaurito, e se lo trasse dietro lungo la strada. Gli parea ormai d’avere il cuore spezzato e la gola rotta.
Ancora la via Toledo rigurgitava di soldati e di birri; e gli sbocchi dei vicoli eran chiusi da compagnie con le baionette innastate, e ancora durava quel vocìo incomposto di gente lieta che può cantar vittoria. Passavano, a quando a quando, coppie di soldati recanti or fasci di lance, or di fucili, ora ceste di bombe o di cartucce, e si scambiavan con i soldati fermi agli sbocchi, saluti e motti commentati da sghignazzi alti.
Ma, a un tratto, al vocìo alto successe un mugolare sordo, e, dal basso della via, apparve una siepe fitta di baionette e una folla d’armati. Ma il mugolare sordo si veniva placando, e s’udiva ora il tonfo dei passi e il cigolo delle ruote d’un carro....
Pispisedda si rizzò e travide, oltre la siepe delle baionette, un cavallo, un carretto, e sul carretto un uomo, poi altri uomini seduti o accosciati....
“Iddu è” dicevano “Iddu è! Cicciu Riso!”
“È ancora vivo?” si domandò Pispisedda fremendo.
Come il convoglio s’avvicinava, il silenzio si faceva più alto. Pareva che la sorpresa, la meraviglia, la paura serrasse le gole di quel popolaccio di soldati e di birri, che or ora aveva vociato urli di vittoria. “Carognoni” imprecava Pispisedda, scorgendo tutte quelle facce sbiancate, sulle quali il riso ebete di poco fa s’era già spento. E ora risonava alto il tonfo dei passi e lo zoccolo del cavallo e il cigolìo delle ruote. E i soldati e i birri arretravano verso il muro.
Pispisedda fece un lancio, e vide il primo ferito che aveva negli occhi un atteggiamento di sfida.
“Iddu è!” esclamò il ragazzo. E attese trepidando e guardando a una a una le facce sbiancate dei birri e dei soldati che arretravano sempre più a ridosso dei muri.
E il carro fu a mezzo la via assiepato dai soldati: Pispisedda si cacciò risolutamente avanti e scorse don Ciccio Riso sul piano del carro tra la siepe di baionette, con quel suo sguardo, ardente, fiero, che pareva investisse come ventata di sfida la folla dei venduti.
Per quel giovane, per quel giovane e pochi altri uomini, tutto l’esercito del Re era stato preso da folle paura; per quel giovane e pochi altri uomini avea tuonato laggiù il cannone! Ma quei soldati e quei birri del Borbone scorgevano nello sguardo di Francesco Riso, ancora il grido di sfida che era di tutto il popolo: come se da dietro le imposte di tutte quelle finestre, e di tutti quei balconi serrati scattassero tuttavia gridi altissimi di minaccia.
Un’ondata di contento investì l’anima di Pispisedda, come se Francesco Riso fosse portato non alla morte, ma in trionfo da un popolo non già spaurito, ma vittorioso.
“Uno, due, tre, quattro, cinque!” contò Pispisedda quando passaron gli altri feriti, sui quali si sferrava l’ira compressa dei birri.
Come il convoglio passò del tutto, Pispisedda e don Gaetanino si allontanarono.
Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato a Palermo durante la rivoluzione del 1860. La rivoluzione vissuta e narrata dai ragazzini palermitani.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919. Impreziosito dalle illustrazioni dell'epoca di Alberto della Valle.
Prefazione del dott. Rosario Atria.
Prefazione del dott. Rosario Atria.
Pagine 522 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online
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