Pispisedda non seppe chieder più nulla a se stesso.
Ecco davanti a lui la fila nera, cupa, che doveva essere abbattuta d’un colpo; e non ebbe la forza di serrar gli occhi per non vedere, o di tapparsi gli orecchi per non udire: restò sulle punte dei piedi, irrigidito, con gli occhi sbarrati.
Egli vide, vide i soldati a prender la mira coi fucili; vide l’ufficiale a dar il segno con la spada; vide tre nugoli di fumo scattar da le canne; udì uno scroscio simultaneo e vide che, dopo lo sparo, la prima fila di soldati balzò addietro. E vide altri tredici nugoli di fumo scattar da altre canne di fucili e s’udì un altro scroscio e vide la fila, la fila nera abbattersi di schianto, tutta insieme come se il terreno fosse affondato improvvisamente.
S’udirono alti singhiozzi.
- È vivo, è vivo! – gridò qualcuno a un tratto.
- Il poeta Camarrone, è salvo!
- Ora lo graziano, ora lo graziano!
Un infermiere e un crocifero accorsero.
- Sono vivo! – grida Camarrone tentando di levarsi.
Ma subito, il prete e l’infermiere arretrano. È stato dato un ordine. Altri tredici nugoli di fumo scattano, un altro scroscio e anche l’ultimo martire cade riverso, accanto agli altri colpiti che dànno gli ultimi strattoni tra fiamme e fumo.
- Bruciano, bruciano! Hanno usato le palle infocate! – grida qualcuno, esterrefatto.
- Spegnete, spegnete il foco, assassini! – urla qualcuno. Ed ecco che alcune donne accorrono e versano, pietosamente, secchiate d’acqua e terriccio sui morti. Ma i soldati danno la carica, spingono le donne per far largo ai tre carri recanti le casse da morto.
- Li portano al camposanto, ora.
Il cigolìo e lo stridìo dei carri è rotto soltanto da scoppi di singhiozzi mal repressi.
- Allontaniamoci – gemè Pispisedda. Ma Ferraù pareva impietrito e non moveva ciglio; dal labbro inferiore gli gocciolava ininterrottamente un rivolo di sangue vermiglio.
E Pispisedda tornò a guardare. A uno a uno, i cadaveri vennero gettati nelle vaste casse. Si intravedeva nell’aria un corpo con le braccia, le gambe e il capo penzolanti; e s’udiva il tonfo alto, cupo del cadavere buttato nella cassa. Sulle casse poscia fu gettato un incerato largo; ma l’ultima, ch’aveva cinque cadaveri invece di quattro, mostrava anche sotto l’incerato la forma d’un corpo.
E il tristissimo corteo si mosse.
Come i carri passavano, le donne sbottavano in singhiozzi e mormoravano alto: “O figli, figli, figli!”. E gli uomini, i pochi uomini che avevano potuto resistere, facendosi bianchi e cupi in viso, si scoprivano...
Anche Ferraù e Pispisedda con un breve gruppo di popolani, attratti da una forza invincibile, seguirono i tre carri per Santa Lucia. Andavano a capo basso, in punta di piedi, muti, sì che lo strider dei carri echeggiava alto nella via larga. A un tratto, qualcuno profferì una parola e additò in terra. Un senso di raccapriccio corse gli animi. Tosto ognuno balzò ai fianchi della strada e la carraia si vuotò. Allora rosseggiò vivido quel rivolo di sangue vermiglio, che gocciolava incessantemente dai carri sgorgando dalle ferite, dagli squarci che le palle borboniche avean fatti sui corpi palpitanti. E parve a ognuno che ancora i corpi frementi si dibattessero negli ultimi spasimi dell’agonia, l’uno su l’altro, accatastati. E, non reggendo gli animi, a uno a uno, i cittadini si vennero fermando abbattuti da un dolore folle. Anche Pispisedda e Ferraù caddero affranti sulla spiaggia di Santa Lucia. E i carri s’allontanarono lentissimi mentre il sangue segnava la scìa vermiglia su la polvere morta. Niente era più vivo di quel segno, che gli uccisi lasciavan sul loro cammino, niente gridava più forte di quel sangue vivissimo.
Ecco davanti a lui la fila nera, cupa, che doveva essere abbattuta d’un colpo; e non ebbe la forza di serrar gli occhi per non vedere, o di tapparsi gli orecchi per non udire: restò sulle punte dei piedi, irrigidito, con gli occhi sbarrati.
Egli vide, vide i soldati a prender la mira coi fucili; vide l’ufficiale a dar il segno con la spada; vide tre nugoli di fumo scattar da le canne; udì uno scroscio simultaneo e vide che, dopo lo sparo, la prima fila di soldati balzò addietro. E vide altri tredici nugoli di fumo scattar da altre canne di fucili e s’udì un altro scroscio e vide la fila, la fila nera abbattersi di schianto, tutta insieme come se il terreno fosse affondato improvvisamente.
S’udirono alti singhiozzi.
- È vivo, è vivo! – gridò qualcuno a un tratto.
- Il poeta Camarrone, è salvo!
- Ora lo graziano, ora lo graziano!
Un infermiere e un crocifero accorsero.
- Sono vivo! – grida Camarrone tentando di levarsi.
Ma subito, il prete e l’infermiere arretrano. È stato dato un ordine. Altri tredici nugoli di fumo scattano, un altro scroscio e anche l’ultimo martire cade riverso, accanto agli altri colpiti che dànno gli ultimi strattoni tra fiamme e fumo.
- Bruciano, bruciano! Hanno usato le palle infocate! – grida qualcuno, esterrefatto.
- Spegnete, spegnete il foco, assassini! – urla qualcuno. Ed ecco che alcune donne accorrono e versano, pietosamente, secchiate d’acqua e terriccio sui morti. Ma i soldati danno la carica, spingono le donne per far largo ai tre carri recanti le casse da morto.
- Li portano al camposanto, ora.
Il cigolìo e lo stridìo dei carri è rotto soltanto da scoppi di singhiozzi mal repressi.
- Allontaniamoci – gemè Pispisedda. Ma Ferraù pareva impietrito e non moveva ciglio; dal labbro inferiore gli gocciolava ininterrottamente un rivolo di sangue vermiglio.
E Pispisedda tornò a guardare. A uno a uno, i cadaveri vennero gettati nelle vaste casse. Si intravedeva nell’aria un corpo con le braccia, le gambe e il capo penzolanti; e s’udiva il tonfo alto, cupo del cadavere buttato nella cassa. Sulle casse poscia fu gettato un incerato largo; ma l’ultima, ch’aveva cinque cadaveri invece di quattro, mostrava anche sotto l’incerato la forma d’un corpo.
E il tristissimo corteo si mosse.
Come i carri passavano, le donne sbottavano in singhiozzi e mormoravano alto: “O figli, figli, figli!”. E gli uomini, i pochi uomini che avevano potuto resistere, facendosi bianchi e cupi in viso, si scoprivano...
Anche Ferraù e Pispisedda con un breve gruppo di popolani, attratti da una forza invincibile, seguirono i tre carri per Santa Lucia. Andavano a capo basso, in punta di piedi, muti, sì che lo strider dei carri echeggiava alto nella via larga. A un tratto, qualcuno profferì una parola e additò in terra. Un senso di raccapriccio corse gli animi. Tosto ognuno balzò ai fianchi della strada e la carraia si vuotò. Allora rosseggiò vivido quel rivolo di sangue vermiglio, che gocciolava incessantemente dai carri sgorgando dalle ferite, dagli squarci che le palle borboniche avean fatti sui corpi palpitanti. E parve a ognuno che ancora i corpi frementi si dibattessero negli ultimi spasimi dell’agonia, l’uno su l’altro, accatastati. E, non reggendo gli animi, a uno a uno, i cittadini si vennero fermando abbattuti da un dolore folle. Anche Pispisedda e Ferraù caddero affranti sulla spiaggia di Santa Lucia. E i carri s’allontanarono lentissimi mentre il sangue segnava la scìa vermiglia su la polvere morta. Niente era più vivo di quel segno, che gli uccisi lasciavan sul loro cammino, niente gridava più forte di quel sangue vivissimo.
Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1859-60.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad & figlio nel 1919, impreziosito dai disegni dell'epoca di Alberto della Valle.
Pagine 523 - Prezzo di copertina € 22,00 - Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online.
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour - Palermo)
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad & figlio nel 1919, impreziosito dai disegni dell'epoca di Alberto della Valle.
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