Mentre mi riposava non senza turbati pensieri nel mio novello nascondiglio (giorno 20 Dicembre) il martire amico e compagno Francesco Bentivegna, sedeva sul banco dei malfattori dentro il forte Castellammare per essere giudicato dal Consiglio di Guerra eretto con forma subitanea. Presideva un tal Consiglio il Colonnello Giordano, faceva da pubblico Ministero il Capitano Cesare Schittini; il Colonnello dichiara aperta la seduta; gli avvocati di Bentivegna fecero le loro proteste. Il valente avv. Giuseppe Puglia prese la parola:
«Signor Presidente, d’alcuni giorni abbiamo fatto un ricorso alla Suprema Corte di Giustizia sul merito di questa causa documentata dalla nostra legge del Regno, e sino a che quei vecchi magistrati non daranno il loro risponso, voi Signori, quest’oggi non avete il diritto di giudicare l’imputato, e prego che si rimandi la causa ad altro tempo».
Le ragioni di diritto di quel culto giureconsulto qual fu l’avv. Puglia non valsero per nulla.
Il Presidente rispose:
«Ho ricevuto l’ordine dal Governo di giudicare oggi il Bentivegna, e non indugierò di un’ora, si prosiegua il dibattimento. Imputato alzatevi! Oggi come già vedete si fa la vostra causa, se avete cosa da dire per la vostra discolpa chiedetemi la parola che vi sarà accordata. Quante armi avete?»
Bentivegna con gentilezza ringraziò il Presidente.
«Ma ne sia certo» diceva egli, «che io non domanderò mai la parola, sarebbe un fiato inutilmente sprecato, sono bene persuaso che le mie ore sono contate!»
tta sbirraglia Borbonica.
Prese la parola il Commissario del Re, Capitano Schittini Cesare.
«Signori, il giudicabile secondo me, è un delinquente nato, egli nacque nel 1820 quando la Sicilia era in rivolta, nel 1848 prese le armi contro il nostro Sovrano, come deputato in quell’epoca, fu uno dei primi che iniziò la decaduta del nostro Sovrano, congiurò con Nicolò Garzilli nel Gennaio 1850. Dopo si univa nel 1854 nella farmacia Romano via Castro ove venne arrestato. Non appena uscito dal carcere di Trapani, dà principio alla propaganda rivoluzionaria, lascia di nascosto Corleone, e fa il giro di Bagheria, Termini Imerese, e Cefalù ove trovò alcuni illusi, che si rivoltarono dopo il 22 Novembre, per effetto della notizia ricevuta, che il giudicabile Bentivegna era sul campo di battaglia; del resto l’avete inteso testé, dalla propria bocca del giudicabile, che il capo affettivo era lui. Per sì fatti motivi chiedo che venga applicato al giudicabile l’art. 123 del nostro Codice, che infligge la pena di morte mercè la fucilazione, e che sia eseguita questa pena nella piazza di Mezzojuso in fra le ore 24 come pubblico esempio. Son certo che tutto il consiglio ad unanimità accoglierà le mie conclusioni dettate dalla legge e dalla coscenza».
Il giudicabile mentre parlava contro di lui, il suo carnefice accusatore, guardava un altro uomo, inchiodato sulla Croce: Gesù Nazzareno ch’era morto per salvare il genere umano, lui offriva la propria vita per liberare un popolo oppresso!
«Imputato Bentivegna», disse il presidente, «avete il diritto di parlare, se volete a vostra discolpa, ricordatevi che dalla munificenza Sovrana, si può essere perdonati, rivelando le trame segrete».
Insorse di scatto allora il Bentivegna con sorriso convulso, che uscì dalla sua bocca serrata dicendo:
«Siete vili ed ipocriti, affrettate il mio supplizio, spegnete la mia vita, ma non ardite offendere la mia coscienza. Torturatemi ancora quanto volete, ma con le zozze vostre insinuazioni non lordate la mia persona. Se vi è lecito di togliermi la vita lasciatemi l’onore. Non sperate giammai, che io scendo nella tomba contaminato, ed imparate come si muore per una causa patriottica, e santa».
I componenti del Consiglio scossi dall’audacia di quell’uomo di volontà di ferro, di fronte all’onore che spreggiava la vita, come belve assetate di sangue entrarono nella camera delle deliberazioni e dopo venti minuti uscirono colla crudele sentenza in mano.
Il Segretario la lesse, eccone il testo: Il Consiglio di guerra visto l’articolo 123 del Codice Penale, ritenuto che il giudicabile Bentivegna Francesco, avrebbe voluto distruggere con la rivolta la forma del nostro governo, condanniamo, a parità di voti il Barone Francesco, Bentivegna nato in Corleone nel 1820 alla pena della fucilazione, da eseguirsi tra le ore 24 nella publica piazza di Mezzojuso come grado di publico esempio.
Il condannato era piuttosto lieto di quella sentenza, perchè colla di lui morte poneva fine ad una vita strazziata di tante torture sofferte, e che sarebbe stato il soggetto dell’odio contro l’abborrito governo, che affrettava come successe la propria caduta!
L’infelice di sua madre Marchesa De Cordova era ritornata da Napoli, aveva ottenuto un’udienza dal sovrano, si era prostrata ai di lui piedi del Sovrano Ferdinando II a implorare con amorose lacrime di avere salva la vita del proprio figliuolo. L’umiliazione, e le lagrime non valsero ad intenerire quel pio Monarca (come ardiscono chiamarlo alcuni preti).
«Vedremo Signora» fu la risposta di quel re, sitibondo di sangue nulla promise, e nulla fece.
Terminato il Consiglio l’orgoglioso martire, Bentivegna, era stato racchiuso nella sua cella per attendere l’ora della partenza. La madre aveva ottenuto il permesso dal Luogotenente Generale del Re, Principe di Castelcicala per potere abbracciare per l’ultima volta il suo diletto figlio. Fu fatta entrare nella cella ov’egli stava racchiuso.
Ai vostri pietosi cuori miei cari lettori il valutare, l’impressione dolorosa di quella madre infelice, giacché taluni affetti si sentono, ma non si possono esprimere!
La desolata Marchesa, strinse di un fiato il suo diletto figlio, quel figlio, che la dimane doveva ricevere dieci palle sul candido petto, e sparire da questo mondo per sempre!! di quale fortuna per la madre, se avesse potuto dividere la sorte toccata al figlio. Questi cogli occhi di un Nazzareno guardò la sua infelice madre, e poi gli disse:
«Confortati mia cara madre, dimostrati grande come le donne degli antichi romani, sii una novella Cornelia, pensa di essere mia madre, io muojo per la libertà del popolo oppresso, il mio sangue germoglierà, e farà libero il popolo oppresso, confortati e spera nell’avvenire».
Partita la madre infelice, nell’acerbo dolore, nell’angoscia il condannato chiese di abbracciare il suo fratello Stefano che stava racchiuso poco distante da lui in altra oscura prigione, neppure un tal conforto gli venne concesso!
La desolata Marchesa, strinse di un fiato il suo diletto figlio, quel figlio, che la dimane doveva ricevere dieci palle sul candido petto, e sparire da questo mondo per sempre!! di quale fortuna per la madre, se avesse potuto dividere la sorte toccata al figlio. Questi cogli occhi di un Nazzareno guardò la sua infelice madre, e poi gli disse:
«Confortati mia cara madre, dimostrati grande come le donne degli antichi romani, sii una novella Cornelia, pensa di essere mia madre, io muojo per la libertà del popolo oppresso, il mio sangue germoglierà, e farà libero il popolo oppresso, confortati e spera nell’avvenire».
Partita la madre infelice, nell’acerbo dolore, nell’angoscia il condannato chiese di abbracciare il suo fratello Stefano che stava racchiuso poco distante da lui in altra oscura prigione, neppure un tal conforto gli venne concesso!
Spiridione Franco (Capitano dell'armata siciliana 1848-1860. Garibaldino): Francesco Bentivegna. Storia della rivolta del 1856 in Sicilia organizzata dal barone Francesco Bentivegna in Mezzojuso e da Salvatore Spinuzza in Cefalù.
Pagine 167 - Prezzo di copertina € 15,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
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