La sera del 31 marzo, in casa Albanese, convenivano Giambattista Marinuzzi, Casimiro Pisani, Giuseppe Bruno-Giordano, Andrea Rammacca, Antonino Lomonaco-Ciaccio, Antonino Urso, Ignazio Federico, Francesco Perrone-Paladini, Silvestro Federico; e deliberarono d’insorgere tra il 6 e il 7 di aprile. La deliberazione da Casimiro Pisani venne comunicata a Messina, perchè si tenesse apparecchiata, e insorgesse a un dispaccio che annunciava “il matrimonio della figlia”. I comitati dei dintorni vennero avvertiti: ma ecco, la sera del 2 la polizia arresta Mariano Indelicato uno dei cospiratori; Casimiro Pisani, avvertito per confidenza di un amico del suo imminente arresto, si mette in salvo col padre, dopo avere deposto ogni incarico nelle mani dei fratelli Lo Monaco. Parve non doversi aspettare oltre, e fu decisa l’insurrezione pel 4 aprile, mercoledì santo. Chi ruppe l'indugio fu Francesco Riso.
Era stato dapprima destinato a capitanare le squadre di Misilmeri; ma quando si cercò chi dovesse dare il segno della rivolta in Palermo e affrontare il fuoco pel primo, volle per sè questo onore. A Misilmeri doveva andare Domenico Corteggiani, ma fu sostituito da Antonino Ferro, attivo e ostinato cospiratore in quel decennio. Francesco Riso aveva accumulato intanto le armi in un magazzino da lui tolto a pigione accanto al convento della Gancia, donde con gli uomini della sua squadra doveva dare il segno.
Una leggenda narrò che i frati fossero consapevoli e partecipi della cospirazione; un'altra che un frate avesse denunciato a Maniscalco gli apparecchi, il luogo il giorno della insurrezione. E non è vero. I frati non seppero nulla fino all' alba del 4 aprile; e la denuncia fu fatta dallo agente segreto Basile, al quale certi Muratori e Urbano, la mattina del 3, ignorando che fosse una spia, confidavano ogni cosa. Probabilmente la leggenda nacque dal vedere, la mattina del 4, un frate col famoso berretto imposto da Maniscalco alle spie. Si chiamava fra Michele da Prizzi, ma non era della Gancia.
Maniscalco reggeva in quei giorni il governo, per l'assenza del luogotenente generale Castelcicala: finse non saper nulla, ma convocò un consiglio di generali. Nella notte dal 3 al 4 fece circondare il convento della Gancia e le strade adiacenti. Riso aveva in tutto ottantadue uomini divisi in tre squadre: una di cinquantadue capitanata da Salvatore La Placa, uomo di grande audacia, s’era radunata in un magazzino alla Magione; la seconda di dieci, in una casetta nella via della Zecca; la terza di venti uomini con lui nel magazzino della Gancia. Altre squadre dovevano adunarsi qua e là; una nel vicino palazzo S. Cataldo, presso Carlo e Carmelo Trasselli; altra alla Fieravecchia coi fratelli Lomonaco. Si doveva cominciare con l’impadronirsi del Commissariato e del corpo di guardia di Porta di Termini, per aprire libero il passo alle squadre di Misilmeri e Bagheria concentrate alla Guadagna e al ponte delle Teste. All'alba Riso fu avvertito che erano circondati dalle truppe: non si sgomentò, disse che non era tempo di ritrarsi: egli avrebbe dato l'esempio: se lo vedevano tremare, l'uccidessero. E per vedere come stessero le cose, uscì dal suo magazzino. S'imbattè in una pattuglia di compagni d'armi e soldati: “Chi viva”? – “Viva il re”! – dicono. – “Viva l’Italia!” – risponde. Si fa fuoco: un birro, certo Cipollone, cade. Così comincia la mischia. Riso e quel pugno d'uomini sostengono l’assalto delle truppe regie: Domenico Cucinotta e Nicola Di Lorenzo salgono sul campanile e suonano a stormo. Accorre Salvatore La Placa con la sua squadra; cade ferito gravemente: mani pietose lo raccolgono, lo celano, lo curano. Questo eroico giovane, sottratto così alla morte, il 27 maggio riprenderà il suo posto di combattimento, e sarà ferito ancora una volta.
Cadono Michele Boscarello, Damiano Fasitta, Matteo Ciotta, Francesco Migliore, Giuseppe Cordone, un Randazzo: Riso dopo esser corso al campanile a piantarvi il tricolore, scende, si batte, cade ferito da quattro colpi all'addome e al ginocchio; un birro, che qualcuno dice l’Ispettore Ferro, gli è sopra, gli ruba l'orologio, e gli dà una bajonettata all'inguine.
Qualche ora dopo il combattimento era finito. Per vincere questo pugno d'uomini, c'eran voluti un battaglione di linea, un plotone di cacciatori a cavallo, una sezione d'artiglieria, compagni d'armi, gendarmi e birri; c'era voluto un generale, il Sury; s'era dovuto atterrare una porta con gli obici, e un obice il tenente Bianchini aveva dovuto portare fin sopra al convento!
Le soldatesche si abbandonarono all'orgia del saccheggio e della strage: finirono a bajonettate uno dei caduti, ancor vivo; uccisero un frate, Giovannangelo da Montemaggiore, altri ne ferirono; il resto percossero, sputarono, legarono, trascinarono al comando di Piazza e alla Prefettura di polizia, insieme coi ribelli presi.
La città sgomenta non seguì il moto. Il comitato si sbandò. Qualcuno che doveva capitanare una squadra si ecclissò: comparve dopo il 27 maggio, nelle sale del Municipio, vestito di velluto all’Ernani, e n’ebbe ricompensa: gli altri, disanimati dal vedere scoperta la trama, creduta l’insurrezione domata in sul nascere, giudicaron vano ogni altro tentativo.
Ma nei dintorni della città seguirono fieri scontri, in quello e nei giorni successivi, fra le squadre e le colonne mobili, spedite dal generale Salzano, comandante in capo...
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