Bentivegna fu arrestato la notte del 3 dicembre da dieci soldati d’armi, e da una compagnia del battaglione cacciatori guidati da spia, un certo Milone uomo più volte beneficato da Bentivegna; e che come tale conoscea ove tenevasi nascosto. Egli fu trovato solo e inerme in una piccola casa di campagna, e fu condotto a Palermo.
La Corte intanto continuava la istruzione del processo, quando il Luogotenente generale con ministeriale del 9 dicembre, Dipartimento di Polizia, scrisse al procuratore generale della gran Corte criminale «Avendo risoluto, che un Consiglio di Guerra subitaneo procedesse pel signor Bentivegna, Ella nel giorno di dimani gli trasmetterà le carte relative allo stesso, e la nota dei testimonii.»
I giureconsulti declamano contro questo atto che essi chiamano arbitrario. La Corte, essi dicono, si trova impossessata del reato, non solo in virtù dei suoi poteri, ma benanco per mandato del governo colla ministeriale del 28 novembre. Bisognava almeno aspettare che il processo appena cominciato fosse completato, e che la Corte si fosse dichiarata incompetente. Operando in tutt’altro modo colla ministeriale del dì 9 dicembre, il governo ha violato la legge.
Or per impedire i tristi effetti di questa violazione gli avvocati Bellia, Puglia, Sangiorgi, Maurigi e Delserco, allora adibiti dalla madre dell’accusato, ed assistiti dal patrocinatore Vincenzo Bentivegna, esposero al Direttore del Dipartimento di Giustizia, e dimandarono al Procuratore generale della gran Corte criminale, che la Corte si dichiarasse competente nel giudizio di Bentivegna, attesochè
Primo: L’ordinanza del 16 giugno in forza della quale si pretendeva mandare il Bentivegna al consiglio di guerra non era più in vigore.
Secondo: Perché quando anche vigesse, l’articolo II della stessa, vi assoggetta tutti quelli presi colle armi alle mani, o su i luoghi stessi della riunione sediziosa, e Bentivegna era stato arrestato solo, inerme, ed in luogo lontano. Conchiudevano gli avvocati dicendo che la Gran corte criminale, persuasa di questa verità si era impossessata del reato, e si era occupata dell’istruzione del processo.
È bene sapere che la presidenza dei consigli di guerra spetta al comandante del Castello, ma pare che il governo diffidasse dell’attuale comandante, e l’avea affidata a Pietro Bartolomeo Masi, colonnello del 9° di linea, il quale come vedete, rispondea benissimo alla fiducia del governo in lui riposta.
Ad un’ora p. m. gli avvocati aveano lasciato il Consiglio di guerra, e a due ore p. m. dello stesso giorno il governo con sua ministeriale ordina al Consiglio suddetto di sospendere le sue sedute. Con altra ministeriale della stessa data, ed all’istessa ora ordinava alla suprema Corte di giustizia d’immutare l’ordine delle sue udienze e di trattare l’indimani sabato di affari penali, e a preferenza la causa di Bentivegna, rimandando gli affari civili a lunedi. Ed il presidente della Corte suprema, avvertendo gli avvocati di tal fatto, li avvisava per fare il giro ed informare i 4 Consiglieri nella stessa sera.
Ma quando gli avvocati si presentavano verso le ore 6 p. m. al presidente della suprema Corte di giustizia, questi comunicava loro un’altra ministeriale allora allora pervenutagli, colla quale il governo ordinavagli di non occuparsi più della causa di Bentivegna.
A mezza notte dello stesso giorno venerdì, una carrozza usciva dal castello scortata da molta forza armata. Vi erano dentro Bentivegna, Maniscalco ispettore di polizia, De Simone Tenente di Gendarmeria. Lungo il viaggio, De Simone dimandava al Bentivegna, se egli avesse tentato di far la rivoluzione per consiglio del console Inglese, o pure di altri, e Bentivegna gli rispondeva con riso sardonico, e gli discorreva di agricoltura.
All’alba la carrozza giunse a Mezzojuso ove il Bentivegna domandò al Caffettiere, caffè e sicari. Poi volle vedere l’arciprete Greco, cui domandò un foglio di carta e calamaio. Il buon Prelato gli fornì tutto, ed egli con mano ferma cominciò a scrivere il suo testamento. Maniscalco e De Simone gli sussurravano che non sarebbe valido, ed egli rispondeva:
«Va bene lasciatemi fare.»
E compì la sua scrittura che consegnò all’arciprete. Poi tornò a fumare, e quando l’ora della esecuzione fu giunta, domandò che non gli si bendassero gli occhi, che non l’obbligassero a sedere sopra sedia.
«Io cammino e voi tirate.»
Egli disse, e così fu fatto.
Così la mattina del sabato, a quell’ora in cui la suprema Corte di giustizia, in virtù della ministeriale comunicatale il giorno prima a due ore p. m. avrebbe dovuto discutere la causa di Bentivegna, questi, poche ore innanzi era stato fucilato in Mezzojuso senza alcun giudizio legale, ma per ordine arbitrario del governo, per cui la suprema Corte in virtù della seconda ministeriale dello stesso giorno di venerdì comunicata alle ore 5 p. m. non si occupava che di affari civili.
Ma la causa di Bentivegna trovavasi già notata per l’udienza di lunedì, e bisognava smaltirla. La suprema Corte dunque trovavasi imbarazzata se dovesse, o pur no trattare la causa del morto. Un ricorso degli Avvocati presentato all’udienza di lunedì in cui si diceva:
«Poiché Bentivegna è stato fucilato e i morti non si giudicano, così ritiriamo il nostro ricorso.»
(Nella foto l'ispettore di polizia Salvatore Maniscalco)
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