Con pari fortuna si combattè a Bagheria, dove due compagnie di linea, costrette a retrocedere dinanzi a quelle squadre, dovettero riparare e fortificarsi nella casina Inguaggiato; e strettamente assediate, sarebbero cadute, per fame, nelle mani degli insorti, se, dopo due giorni, non fosse in loro aiuto accorso il generale Sury con quattro compagnie, mezza batteria di cannoni, mezzo squadrone di cavalleria: i quali, saccheggiati e devastati i villaggi di Ficarazzi e Ficarazzelli, attaccati e respinti gli insorti, liberarono gli assediati, con cui ritornarono in Palermo. Ebbero per altro dieci uomini fuori combattimento.
Rifulse in questo conflitto l’eroico valore di Andrea Coffaro e del figlio Giuseppe; i quali, ritiratisi e asserragliatisi in una casa, detta la torre di Ferrara, accerchiati dalla soldatesca, vi si difesero gagliardamente. Giuseppe, giovane ardimentoso, sdegnando combattere dietro i ripari, uscì all’aperto, e colto da una palla in fronte, cadde morto; Andrea, o non volendo più difendersi pel dolore della morte del figlio o per altre ragioni, cedette le armi, e fu trascinato a Palermo, dove lo aspettava crudeltà di fato.
L’insurrezione si allargava: Piana dei Greci, Corleone, Ciminna insorgevano, Termini fin dal 5 inalberava il vessillo tricolore, costringeva il presidio a richiudersi nel forte, costituiva un comitato e diffondeva emissari nel distretto: tutta la provincia era in fiamme, e le faville giungevano a Barcellona, a Messina, a Catania. Trapani, senza colpo ferire, innalzata la bandiera tricolore, e costituito un comitato, obbligava quell’Intendente marchese Stazzone a licenziare la polizia, facultare la formazione della guardia cittadina, liberare dal carcere il cav. Coppola, e far ritirare il presidio nel castello. Marsala insorgeva anch’essa e formava bande.
Il generale Salzano comandante delle armi in Sicilia, proclamava intanto lo stato d’assedio (4 aprile), istituiva il Consiglio di guerra, ordinava il disarmo, vietava il suono delle campane, e, poco dopo ne faceva togliere i batacchi; proibiva l’andare per le strade in compagnia, alloggiare in casa persone estranee. Il luogotenente generale Castelcicala, giunto il giorno dopo, approvava ogni cosa, e affidava la tutela dell’ordine al Salzano e al Maniscalco. Giungevano frattanto tre piroscafi con milizie novelle e farine e munizioni.
La sera del 7, o per delazione o per sospetti, il Maniscalco faceva arrestare i giovani più attivi del comitato aristocratico, sorpresi in casa del duca Antonio Pignatelli di Monteleone. Erano oltre a quest’ultimo, il barone Riso, il cav. Notarbartolo di S. Giovanni, il principe di Giardinelli, unico superstite oggi di quel comitato, il duca di Cesarò. Il principe di Niscemi, che era con loro e non era stato arrestato, volendo dividerne la sorte, si accusò reo della stessa loro colpa, e porse le mani ai lacci: la polizia non lo scontentò e lo trasse con gli altri. Per maggior avvilimento, ammanettati come malfattori, fece loro attraversare a piedi tutto il Toledo, fino al forte di Castello a mare, circondati di birri. Il popolo salutò riverente e commosso il loro passaggio, compiangendo tanta bella giovinezza, della quale presagiva acerba sorte. Poco dopo, a bordo di una nave americana veniva arrestato il padre Lanza, e si mandava a Napoli, per arrestare il marchese di Rudinì, il quale però riusciva a fuggire per l’astuzia della marchesa Spedalotto.
Cinque bande d’insorti tenevano principalmente il campo, e contrastavano cotidianamente coi regi: quella di Alcamo comandata dai Sant’Anna, quella di Partinico con a capo Damiano e Tomaso Gianì, (questi ancor vive ottantenne) quella di Piana dei Greci capitanata da Pietro Piediscalzi e da Luigi Zalapì, quella di Corleone condotta dal marchese Firmaturi, alla quale si erano aggregati Domenico Corteggiani e Giovan Battista Marinuzzi; quella di Cerda e di Ciminna guidata da Luigi La Porta. V’erano inoltre le squadre della contrada dei Colli, di Carini, Cinisi, Torretta, a capo delle quali erano il d’Ischia, il Bruno-Giordano. Pietro Tondù, i due fratelli Ajello, il padre Messeri, i fratelli De Benedetto.
Le squadre di Carini, di Cinisi, dei Colli, dopo i combattimenti di San Lorenzo si erano ritirate sull’Inserra; quella di Partinico unitasi con quella d’Alcamo, errava sui monti sopra Monreale; quella di Piana, dopo gli scontri sostenuti, si era ritirata a Piana per rinforzarsi, ed ivi infatti era stata raggiunta dalla squadra di Corleone e da molti animosi dei comuni vicini; coi quali, ripresa l’offensiva, sollevati Misilmeri e Belmonte aveva rioccupato il convento di Gibilrossa.
Contro queste squadriglie, che formavano un semicerchio intorno alla città, molestando continuamente gli avamposti e le pattuglie e i piccoli distaccamenti, il governo dell’isola, sollecitato da quello di Napoli e più propriamente dal re, spedì alcune forti colonne mobili. Al generale Cataldo fu assegnato il compito di sloggiare gl’insorti da Gibilrossa, occupare Villabate, Misilmeri, Marineo, spingersi sopra Piana dei Greci, S. Giuseppe delle Mortelle e fermarsi a Partinico. Al maggiore Bosco e al maggiore Morgante, era dato incarico di osteggiare le squadriglie tra Monreale e Boccadifalco; mentre altra colonna sotto gli ordini del tenente colonnello Torrebruna doveva spazzare le campagne dei Colli, fino a Carini. La colonna Cataldo si mosse l’11 di aprile; ma senza mai venire a una vera e propria fazione. Si capì che la tattica delle squadre, era “di non farsi raggiungere mai dalle regie truppe, a solo fine di stancarle, protrarre l’agitazione, e ritardare... il ristabilimento dell’ordine”. Per il che, a troncar una guerra faticosa e senza risultati, il re di Napoli mandava segrete istruzioni per la distruzione delle bande, con la forza da una parte, con gli indulti e spargendo la diffidenza e il tradimento, dall’altra.
Il comando militare, quindi, concertata un’azione simultanea delle varie colonne mobili, diede ordini di assalire gli insorti, che, indietreggiando dinanzi al soverchiare dei regi, si concentravano a Carini. La colonna Cataldo movendo da Partinico, quella del Bosco per Torretta e Montelepre, quella del Torrebruna, rinforzata da altre milizie per la via di Capaci dovevano prendere in un cerchio le squadre. Il 18 infatti gli insorti sono assaliti; si combatte accanitamente per parecchie ore tra forze ineguali: Carini vien presa dai regi del Cataldo, che si abbandonano al saccheggio e alla carneficina. Ma il movimento aggirante, per imperizia del Torrebruna, e per non essere arrivata in tempo un’altra colonna col tenente colonnello Perrone, non riesce: gl’insorti giungono ad aprirsi un varco e a ritirarsi sulle montagne, sebbene fulminati dai borbonici. Gl’incendi, le stragi di Carini indegnarono anche il re, che censurò vivamente la indisciplinatezza e la barbarie delle truppe; segnarono un altro debito verso la vendetta popolare.
Dopo la presa di Carini, i comuni dei dintorni di Palermo ritornarono all’obbedienza; e la più parte degli uomini delle squadre, disanimati da una guerra senza speranza di vittoria, non vedendo giungere gli aiuti che erano stati promessi, non sorretti dalla fede nell’idea dell’unità che essi non capivano, adescati dall’indulto, gittavan le armi e ritornavano sottomessi nelle loro case. La causa della rivoluzione pareva perduta; quando il 20, Rosolino Pilo e Giovanni Corrao giungevano a Piana dei Greci, e con le rinate speranze riaccendevano il fuoco, non ancor domo. Pietro Piediscalzi, infaticabile, ardente, si unì tosto con loro e ricostituì la squadra, che poi tenne, fino alla morte, ai suoi ordini, pagandola del suo.
Spediti messi sicuri al comitato di Palermo, e ricevuti soccorsi di denaro e promesse, Pilo convocò i principali e più vicini capi di squadriglie; e tosto convennero il La Porta, il Firmaturi, il barone di S. Anna, e poco dopo anche Pietro Lo Squiglio, già valoroso combattente in Palermo, e legionario siciliano in Lombardia nel 1848, scampato il 18 aprile al combattimento di Carini, serbato a più gloriosa morte dinanzi le mura di Palermo. Presi gli accordi e separatisi da quei capi, il Pilo, il Corrao e il Lo Squiglio qualche giorno dopo lasciarono Piana dei Greci, in tempo per sfuggire a una sorpresa...
Luigi Natoli: La rivoluzione siciliana del 1860. Narrazione. Fa parte di:
Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano – Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
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