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sabato 20 dicembre 2025

Spiridione Franco: Il nome glorioso del martire Francesco Bentivegna mi rifiorì nella mente... Tratto da: Francesco Bentivegna. Storia della rivolta del 1856 in Sicilia

Percorrendo una via di Roma, mi venne fatto di posare gli occhi sopra un volumetto, che stava quasi nascosto fra un mucchio di tomi, e stampe antiche, su di un tavolo di rivenditori.
Quel libro portava il titolo seguente: Francesco Bentivegna. Romanzo storico di Rocco Baldanza.
Il nome glorioso del martire, e il ricordo dolcissimo dell’amico, e compagno di lotta, mi rinfiorì nella mente lo sfortunato episodio di Mezzojuso, mia patria, di cui io fui testimone oculare, cosicché anzioso di costatare se la narrazione corrispondeva alla esattezza della storia di quei fatti, volli farne acquisto.
Francesco Bentivegna, figlio di Giliberto, e della Marchesa Teresa De Cordova da Palermo, era nato in Corleone nel 1820, aveva fatto gli studi in Palermo, i suoi genitori lo tenevano presso di loro occupandolo nell’agenda di campagna possedendo essi molte terre.
Nel 1848, scoppiata la rivoluzione in Palermo il Francesco Bentivegna, ed il fratello Filippo valoroso tiratore di fucile, formarono in Corleone una numerosa guerriglia di valorosi ed arditi giovani, si recarono in Palermo a combattere le milizie Borboniche: fu in quel tempo ch’io ebbi il piacere di conoscere ed apprezzare il valore dei fratelli Bentivegna.
Quando si diede principio ad organizzare la milizia siciliana, il Francesco Bentivegna ebbe il grado di Maggiore.
Aperto il Parlamento Siciliano nel giorno 25 marzo 1848, Francesco Bentivegna fu eletto rappresentante di Corleone, e fu tra i primi che nella seduta del 13 Aprile dello stesso anno che si decretò la decadenza dei Borboni del Regno della Sicilia.
Nel 1849 quando le truppe Borboniche comandate dal Generale Principe di Satriano vincitore di Messina e Catania, si erano avvicinate presso Palermo, il Francesco Bentivegna coi colonnelli Giacinto Carini e Francesco Ciaccio, di carissima rimembranza, sostennero varii attacchi nei Monti di Menzagno Belmonte, e nelle vicinanze di S.a Maria di Gesù pugnando con molto sangue freddo, dando prova di valore e coraggio.
Firmata la capitolazione della resa di Palermo col Principe Satriano, ed i traditori della patria, che da molto tempo erano in segreta corrispondenza col Borbone, il povero mio amico Bentivegna, mentre le regie truppe entravano in Palermo dalla parte orientale, ne usciva dalla parte occidentale pigliando la via di Monreale, maturando sempre nel suo pensiero di giungere alfine di liberare la Sicilia del Borbonico giogo.
Egli aveva congiurato pure con Nicolò Garzilli nel tentativo rivoluzionario nella sera del 27 Gennaio del 1850 nella piazza della Fieravecchia, oggi piazza della Rivoluzione, che il Garzilli pagò col proprio sangue quel movimento ardimentoso e non ancora maturo, e che il giorno 28 Gennaio venne moschettato nello stesso sito con altri cinque suoi compagni.
Il Bentivegna non cessava mai di congiurare, tanto è così vero che nel 1854 si univa spesso, quasi ogni sera, nella Farmacia di certo Don Carlo Romano in via Castro in Palermo. Una sera la detta farmacia venne circondata da numerosa forza, e nella dietro bottega venne trovato il Bentivegna con Luigi La Porta ed altri amici, i quali sotto buona scorta coi ferri ai polsi furono condotti nel carcere del Forte Castellammare languendo per molto tempo a pane ed acqua.
Il Francesco Bentivegna uscendo dal carcere di Trapani aveva ricevuto ordine dal Maniscalco non potersi allontanare di Corleone sua patria; ma lui sebbene lontano da Palermo era in segreta corrispondenza col Comitato rivoluzionario di Palermo, presieduto dal Conte Federico, i di cui membri erano Salvatore Cappello, dottor Onofrio Di Benedetto, Pietro Tondù, dottor Gaetano La Loggia ed altri.
Nei primi giorni di Novembre del 1856 il mio amico Bentivegna riceveva lettera da Palermo, che la sua persona era desiderata colà per affari di negozio; appena questa ricevuta la notte stessa prese la via per Palermo, e come giunse subito si abboccò cogli amici del Comitato dal quale venne informato, che si erano presi gli accordi coi fratelli di Napoli, e si era stabilito di dare principio alla rivolta nel medesimo tempo incominciando con uccidere Ferdinando II.
La mattina seguente il mio amico di buon mattino uscì dalla casa della cognata divenuta moglie di Nicolò Dimarco, e si portò prima in Bagheria, parlò con Francesco Gandolfo, uomo di molto coraggio, poscia in Termini Imeresi, si abboccò col Dottor Agostino Quattrocchi, partendo da ultimo per Cefalù, ove giunto si portò nella casa del caldo patriotta Salvatore Spinuzza, ebbe pure abboccamento coi fratelli Nicolò e Carlo Botta, anche coi cugini Salvatore ed Alessandro Guarnera, Andrea Maggio e Cesare Civeddu.
Mentre Bentivegna faceva questo giro di propaganda il sotto Intendente di Corleone, aveva saputo la di lui assenza da Corleone, e ne aveva subito avvertito il Maniscalco Direttore di Polizia, il quale insospettito di ciò aveva ordinato ai suoi subordinati di scovarlo ed arrestarlo, promettendo un premio...
(nella foto: Spiridione Franco)


Spiridione Franco: Francesco Bentivegna. Ovvero: Storia della rivolta del 1856 in Sicilia organizzata dal Barone Francesco Bentivegna in Mezzojuso e da Salvatore Spinuzza in Cefalù. Entrambi traditi, vennero arrestati e fucilati. Altre 24 persone ebbero sentenza di morte.
Il volume è la fedele riproduzione dell'opera originale pubblicata in Roma nel 1899 dalla Tipografia Econ Commerciale
Prefazione di Santo Lombino
Pagine 170 - Prezzo di copertina € 15,00
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Giovanni Raffaele: 20 dicembre 1856. La fucilazione di Francesco Bentivegna. Tratto da: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni

Bentivegna fu arrestato la notte del 3 dicembre da dieci soldati d’armi, e da una compagnia del battaglione cacciatori guidati da spia, un certo Milone uomo più volte beneficato da Bentivegna; e che come tale conoscea ove tenevasi nascosto. Egli fu trovato solo e inerme in una piccola casa di campagna, e fu condotto a Palermo.
La Corte intanto continuava la istruzione del processo, quando il Luogotenente generale con ministeriale del 9 dicembre, Dipartimento di Polizia, scrisse al procuratore generale della gran Corte criminale «Avendo risoluto, che un Consiglio di Guerra subitaneo procedesse pel signor Bentivegna, Ella nel giorno di dimani gli trasmetterà le carte relative allo stesso, e la nota dei testimonii.»
I giureconsulti declamano contro questo atto che essi chiamano arbitrario. La Corte, essi dicono, si trova impossessata del reato, non solo in virtù dei suoi poteri, ma benanco per mandato del governo colla ministeriale del 28 novembre. Bisognava almeno aspettare che il processo appena cominciato fosse completato, e che la Corte si fosse dichiarata incompetente. Operando in tutt’altro modo colla ministeriale del dì 9 dicembre, il governo ha violato la legge.
Or per impedire i tristi effetti di questa violazione gli avvocati Bellia, Puglia, Sangiorgi, Maurigi e Delserco, allora adibiti dalla madre dell’accusato, ed assistiti dal patrocinatore Vincenzo Bentivegna, esposero al Direttore del Dipartimento di Giustizia, e dimandarono al Procuratore generale della gran Corte criminale, che la Corte si dichiarasse competente nel giudizio di Bentivegna, attesochè
Primo: L’ordinanza del 16 giugno in forza della quale si pretendeva mandare il Bentivegna al consiglio di guerra non era più in vigore.
Secondo: Perché quando anche vigesse, l’articolo II della stessa, vi assoggetta tutti quelli presi colle armi alle mani, o su i luoghi stessi della riunione sediziosa, e Bentivegna era stato arrestato solo, inerme, ed in luogo lontano. Conchiudevano gli avvocati dicendo che la Gran corte criminale, persuasa di questa verità si era impossessata del reato, e si era occupata dell’istruzione del processo.
È bene sapere che la presidenza dei consigli di guerra spetta al comandante del Castello, ma pare che il governo diffidasse dell’attuale comandante, e l’avea affidata a Pietro Bartolomeo Masi, colonnello del 9° di linea, il quale come vedete, rispondea benissimo alla fiducia del governo in lui riposta.
Ad un’ora p. m. gli avvocati aveano lasciato il Consiglio di guerra, e a due ore p. m. dello stesso giorno il governo con sua ministeriale ordina al Consiglio suddetto di sospendere le sue sedute. Con altra ministeriale della stessa data, ed all’istessa ora ordinava alla suprema Corte di giustizia d’immutare l’ordine delle sue udienze e di trattare l’indimani sabato di affari penali, e a preferenza la causa di Bentivegna, rimandando gli affari civili a lunedi. Ed il presidente della Corte suprema, avvertendo gli avvocati di tal fatto, li avvisava per fare il giro ed informare i 4 Consiglieri nella stessa sera.
Ma quando gli avvocati si presentavano verso le ore 6 p. m. al presidente della suprema Corte di giustizia, questi comunicava loro un’altra ministeriale allora allora pervenutagli, colla quale il governo ordinavagli di non occuparsi più della causa di Bentivegna.
A mezza notte dello stesso giorno venerdì, una carrozza usciva dal castello scortata da molta forza armata. Vi erano dentro Bentivegna, Maniscalco ispettore di polizia, De Simone Tenente di Gendarmeria. Lungo il viaggio, De Simone dimandava al Bentivegna, se egli avesse tentato di far la rivoluzione per consiglio del console Inglese, o pure di altri, e Bentivegna gli rispondeva con riso sardonico, e gli discorreva di agricoltura.
All’alba la carrozza giunse a Mezzojuso ove il Bentivegna domandò al Caffettiere, caffè e sicari. Poi volle vedere l’arciprete Greco, cui domandò un foglio di carta e calamaio. Il buon Prelato gli fornì tutto, ed egli con mano ferma cominciò a scrivere il suo testamento. Maniscalco e De Simone gli sussurravano che non sarebbe valido, ed egli rispondeva:
«Va bene lasciatemi fare.»
E compì la sua scrittura che consegnò all’arciprete. Poi tornò a fumare, e quando l’ora della esecuzione fu giunta, domandò che non gli si bendassero gli occhi, che non l’obbligassero a sedere sopra sedia.
«Io cammino e voi tirate.»
Egli disse, e così fu fatto.
Così la mattina del sabato, a quell’ora in cui la suprema Corte di giustizia, in virtù della ministeriale comunicatale il giorno prima a due ore p. m. avrebbe dovuto discutere la causa di Bentivegna, questi, poche ore innanzi era stato fucilato in Mezzojuso senza alcun giudizio legale, ma per ordine arbitrario del governo, per cui la suprema Corte in virtù della seconda ministeriale dello stesso giorno di venerdì comunicata alle ore 5 p. m. non si occupava che di affari civili.
Ma la causa di Bentivegna trovavasi già notata per l’udienza di lunedì, e bisognava smaltirla. La suprema Corte dunque trovavasi imbarazzata se dovesse, o pur no trattare la causa del morto. Un ricorso degli Avvocati presentato all’udienza di lunedì in cui si diceva:
«Poiché Bentivegna è stato fucilato e i morti non si giudicano, così ritiriamo il nostro ricorso.»


Giovanni Raffaele: Le torture in Sicilia al tempo dei Borboni ovvero Un periodo di cronaca contemporanea.
L'opera è la fedele riproduzione delle corrispondenze originali, Estratto dall'Unità Politica (1862)
Pagine 110 - Prezzo di copertina € 11,00
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martedì 9 dicembre 2025

Luigi Natoli: Il tentato assassinio di Salvatore Maniscalco, capo della polizia borbonica a Palermo. Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento

Il 27 novembre del 1859, mentre Salvatore Maniscalco, direttore di polizia, si accostava alla fonte dell’acqua benedetta della Cattedrale, dalla parte della strada dell’Incoronata, fu colpito da una pugnalata alle reni. 
L’uomo che vibrò il colpo fuggì velocemente, si cacciò pel vicolo Artale, e si perdette in quel labirinto di viuzze; cosicchè il cocchiere di Maniscalco, certo Zagarella, dopo averlo inseguito un pezzo, ne smarrì le tracce e ritornò indietro. 
La ferita non fu mortale, come si credette; o emozione, o imperizia, o fretta, il colpo deviò; ma per la città si diffuse la notizia che il terribile fanatico direttore di polizia era stato ucciso; e un gran sospiro di sollievo e segni di una visibile gioia manifestarono qual cumulo di odi avesse il Maniscalco addensato sopra di sé in ogni ordine di cittadini. Delle quali manifestazioni il governo mostrò scandalizzarsi. 
Per quante ricerche si facessero, per scoprire l’autore dell’attentato, la polizia non ne venne mai a capo. Certo non dubitò mai che il movente fosse politico; ma per quanti arresti, per quante torture si infliggessero sugli arrestati, non si potè aprire il più piccolo spiraglio; e forse il non essersi potuto vendicare dei mandanti e del mandatario, rese più acerbo e crudele il Maniscalco negli ultimi mesi di regime. 
L’attentato era politico: gli autori non erano ignoti al partito liberale; dopo il 1860, molti si gloriarono di quel gesto, ma la verità non si seppe.
Nei primi di dicembre del 1859, la polizia faceva arrestare i popolani Vito Farina, Pietro Palumbo e Rosario Conigliaro “notori per tristi fatti nelle vicissitudini del 1848”; e comunicava al governo di essere “sulle tracce dei fratelli De Benedetto”. Ma questi arresti e queste ricerche non avevano relazione con l’attentato; erano invece consigliati dal timore di una insurrezione, che si credeva dovesse scoppiare l’8 dicembre, festa dell’Immacolata.

Senza nulla saperne, però il governo aveva nelle mani l’autore materiale dell’attentato e le fila della trama; della quale, in base a quanto ne lasciò scritto Antonino Lomonaco-Ciaccio e a quanto attinsi nel 1910 dalla viva voce dell’unico superstite – credo – di quella trama, si può ricostruirne la storia.
Delle memorie di Antonino Lomonaco-Ciaccio si conoscono alcuni brani, pubblicati dal fratello Serafino nel 1865 in un opuscolo biografico, alla morte di Antonino. In essi il Lomonaco confessa che l’idea di sopprimere il Maniscalco venne al comitato; ma che nessuno dei cospiratori si sentiva di tramutarsi in assassino. Combattere a viso aperto, sì, ma colpire dietro le spalle, no.
“La fortuna ci fu propizia – dice il Lomonaco. – Un uomo, quasi fatto interprete del pubblico desiderio... ci si offerse volontariamente all’impresa. Tuttochè di volgare condizione, disse non volere compenso alcuno, soddisfare invece alla febbre di vendetta che lo divorava da più anni per soprusi sofferti”.
C’è un po’ di romanzo in questa narrazione, che abbellisce il gesto; segno di quel sentimento di generosa avversione per un atto, che oggi riproviamo con orrore; ma che i procedimenti rivoluzionari, con le figurazioni retoriche, onde si abbelliva nelle fantasie il tirannicidio, anzi circondavano di eroismo. L’uomo che il Lomonaco-Ciaccio, e con lui molti altri, chiama Farinella, non si offerse, ma fu cercato; non aveva patito soprusi, ma era un tristo arnese, un vero sicario, che alternava la vita fra la relegazione, il carcere e la casa, per continui furti e atti di camorra.
“Farinella” era il soprannome; il suo nome era Vito Farina.
Il nome e la persona di Vito Farina non erano ignoti ai fratelli De Benedetto. Può darsi, che, in seguito a qualche discorso accademico o a qualche sfogo, il Farina si fosse offerto a Raffaele, come il braccio vendicatore; certo è però che ai membri del comitato esso fu designato da Raffaele, Pasquale e Salvatore De Benedetto.
I membri del comitato, che presero parte al complotto furono, oltre s’intende ai De Benedetto, il Lomonaco-Ciaccio, Francesco Perrone-Paladini, Casimiro Pisani. Di altri non so. 
Di gente estranea al comitato, ma non alla vasta cospirazione, v’era il signor Francesco Di Giovanni, proprietario di una panetteria ai Candelai, che vecchio novantenne, e unico superstite di quell’episodio, mi fornì nel 1910 questi particolari.
Il Comitato domandò appunto al Di Giovanni se poteva fidarsi in Vito Farina. Il Di Giovanni, antico cospiratore, valoroso combattente nel 1848, (ebbe il grado di tenente di fanteria appunto pel suo valore), era stato al ritorno dei regi relegato a Ustica; donde aveva tentato, invano, di evadere con Giovanni Corrao. Vi rimase sette anni; poi fu aggraziato, riammesso in Palermo, ma sottoposto a sorveglianza speciale. A Ustica aveva conosciuto il Farina, che vi era per ragioni... non politiche certamente.
Le informazioni furono soddisfacenti. Vito era proprio quello che i De Benedetto credevano. 
Il Farina, sapendo l’ora in cui il Maniscalco andava al duomo, lo appostò, appoggiandosi con indifferenza presso il fonte dell’acqua benedetta, dal lato della via dell’Incoronata. Egli si era associato un tal Lo Coco, il quale doveva favorirne la fuga: aveva barba finta e sopra il vestito se n’era posto un altro di carta morbida, sottile, scura, che simulava bene le stoffe; nascondeva nella manica un piccolo pugnale con manico di legno, fornitogli dal Comitato.
Alle 19 e mezza d’Italia, Maniscalco uscendo dalla chiesa, era colpito: il pugnale rimastogli nella ferita, fu sequestrato; ora si trova alla Società Siciliana di Storia Patria per dono di Salvatore Cappello, che lo trovò nell’archivio di Maniscalco, dopo il 27 maggio 1860.
Il Farina per la strada, fuggendo, si strappò il vestito di carta e la barba posticcia, cosicchè, rivedendolo, nessuno l’avrebbe riconosciuto; ciò valse a farne perdere le tracce.
Dopo qualche giorno, come dissi, egli fu arrestato con cento altri; bastonato, torturato. Si sapeva che fosse in relazione coi De Benedetto, e si sospettava che conoscesse qualche cosa: ma non si credeva, non passava neppur pel cervello che fosse stato proprio lui autore del colpo...

Rivendicazioni. La Rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano – Raccolta di scritti storici e storiografici dell’autore sul Risorgimento in Sicilia, costruita sulle opere originali. Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni anno 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860 (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910) Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI) I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931) Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848 - 1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 575 – Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.



Il volume è disponibile:
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