Salendo al trono, Ferdinando II col nuovo proclama prometteva di sanare le piaghe che affliggevano il Regno, e di apportare utili riforme nell’amministrazione, nella giustizia, e nell’esercito. Queste promesse e l’avere scacciato il Viglia e gli altri intriganti, lo facevano in Napoli salutare «novello Tito».
Ma quanto a mutamenti politici Ferdinando fu profondamente avverso. Era assolutista, e né gli avvenimenti di Francia, né il fermento che era in tutta Italia scossero la sua fede nel regime assoluto.
Di scarso ingegno, di più scarsa coltura, vendicativo nelle vittorie, doppio e astuto nelle sconfitte, buono per tornaconto, virtuoso negli affetti domestici, volgare nelle amicizie, caparbio sino alla cecità, illuso di regnare per inabolibile diritto divino, avrebbe potuto essere il primo re d’Italia, e si contentò d’essere vassallo dell’Austria
In Sicilia il suo proclama fu portato l’11 di Novembre dal generale Nunziante, incaricato dal Re stesso di destituire dalla carica di luogotenente il marchese Ugo delle Favare, tristissimo e feroce poliziotto, e di obbligarlo a partire lo stesso giorno, entro due ore, per Napoli. Questa espulsione destò speranze di miglioramento, le quali crebbero per la nomina a luogotenente generale di suo fratello Leopoldo, conte di Siracusa; e dovunque si festeggiò l’evento con luminarie, indirizzi, poesie.
Durante l’anno, furono fatte utili cose in Sicilia; uno stretto trattato pel commercio dei vini con la Francia; fondato in Palermo l’Istituto dei Sordomuti; abolito il monopolio dei tabacchi; e qualche altro provvedimento preso per mitigare i pesi che oberavano l’Isola. E in seguito ad un viaggio attraverso la Sicilia, il Re emanò disposizioni per promuovere lo sviluppo delle industrie e delle belle arti, per la formazione di società economiche, e per la costruzione di strade. Successivamente furono bonificati alcuni dazi; abolito un dazio sulle carni; istituito il Gran libro del Debito Pubblico e la Cassa di ammortizzazione; studiate le rettifiche sulle imposte della fondiaria e del macino per renderle meno gravose. Ed altre buone disposizioni vennero prese in seguito. Se non che tutti gli affari di Sicilia trovarono una malcelata avversione nel ministero di Napoli, mosso da non si sa quale rancore contro di essa. Onde il Principe Leopoldo si recò a Napoli, e ottenne fosse di nuovo istituito presso quel governo il ministro degli affari di Sicilia. Notiamo qui per curiosità l’apparizione di un’isola vulcanica nel mare di Sciacca 1’11 luglio del 1831, e che poco dopo si sommerse.
Nel novembre dal 1832 Ferdinando sposò Maria Cristina di Savoia, figlia di Carlo Alberto, e fece con la sposa nuovamente il viaggio per la Sicilia, tra feste più sontuose delle prime, specialmente a Palermo e a Messina. Maria Cristina fece sentire ai Napoletani gli effetti della sua pietà, ma per breve tempo; ché nel gennaio 1836, dato alla luce l’erede al trono, Francesco, morì; e si disse per uno spavento avuto nel puerperio.
Durante questo periodo, l’attaccamento della Sicilia al principe Leopoldo, e l’interesse che questi prendeva delle cose dell’Isola, destarono sospetti nell’animo di Ferdinando, che richiamò il fratello, e gli diede successore il Principe di Campofranco.
La Sicilia se ne dolse, ma forse più le belle dame. Maggiore e più sincero fu il compianto per la morte di Vincenzo Bellini, orgoglio dell’Isola materna, il nome del quale non ha bisogno di illustrazioni.
La rivoluzione del ‘20 e i fatti successivi, avevano aperto gli occhi ai Siciliani, che s’accorgevano quanto fossero state perniciose le rivalità municipali nell’interesse della libertà e dell’indipendenza; e quanto invece fosse necessaria l’unione. Aveva anche mostrato ai liberali napoletani che non c’era da fidarsi dei Borboni; che bisognava riprendere con la forza la libertà soppressa, e che quindi era necessario il concorso della Sicilia. Si riprendeva il lavorìo segreto a Napoli come in Sicilia, ma con nuovi intendimenti, e con nuove aspirazioni. Entrava in esse un nome, che fino allora era stato semplicemente una designazione geografica: Italia.
La gioventù colta si era venuta educando sui grandi scrittori italiani: Dante, Alfieri, Foscolo, prendevano il posto del Tasso e del Monti (quello della Bassvilliana) preferiti nelle scuole dei Gesuiti.
Fin dal 1830 un esule, M. Palmieri, auspicava che non si parlasse più di Siciliani, Napoletani, Toscani, Piemontesi e via dicendo, ma d’Italiani; e, pure vagheggiando l’unità nazionale, proponeva una federazione di repubbliche italiane, con a capo Roma. Una visione dell’Italia libera e indipendente dallo straniero, balenava in un carme di F. P. Perez, scritto in morte di U. Foscolo nel 1833; si allacciavano relazioni con gli esuli italiani riparati in Spagna, a Malta, a Corfù, dopo il 1831; si disegnavano sbarchi nell’Isola, nella quale si riteneva «coperto di cenere, ma non spento il fuoco». Non mancavano fra i giovani di Sicilia, gli aderenti alla Giovane Italia. In uno dei primi numeri del giornale che aveva lo stesso nome, il Mazzini rivolgeva infatti ai Siciliani una memoranda lettera, entrata di contrabbando, e diffusa fra essi. Ma più attive erano le relazioni fra Siciliani e Napoletani.
Si erano formati alcuni comitati a Palermo, a Messina a Siracusa e tra loro si scrivevano, e corrispondevano coi liberali napoletani.
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