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martedì 6 maggio 2025

Luigi Natoli: Nella notte del 5, adunatisi a Quarto, i volontari si imbarcarono: eran mille e ottantacinque, compresa una donna, Rosalia Montmasson... Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

Fissata la spedizione, la febbre accese tutte le vene. Garibaldi corse a Genova, e fatto chiamare il Fauchè, gerente della Società Rubattino, col quale già fin dal 9 aprile si era inteso, concertò per la cessione dei due piroscafi, il Lombardo e il Piemonte, incaricando Bixio di ogni cosa. Villa Spanola a Quarto diventò il quartiere generale della spedizione. Il Bertani, Crispi, Bixio, si moltiplicavano. Dalla Lombardia, dal Veneto, dalla Liguria; da ogni regione d’Italia accorrevano volontari: i più non superavano il venticinquesimo anno; v’erano dei giovani quindicenni, uno di undici anni; cinque soltanto oltrepassavano i sessanta: la più parte benestanti o impiegati o professionisti; in minor numero, di popolo. Non avevan vestiti uniformi; pochi indossavano camicie rosse; Sirtori e Crispi vestivan di nero con cappello a cilindro, Bixio portava la divisa dell’esercito piemontese; gli altri giacche, giubbe, camiciotti, colori e forme disparate, armi pochissime: e queste, date dal La Farina per le sollecitazioni di Crispi e degli altri esuli, erano un mille fucili e munizioni, che caricati in barche dovevano aspettare i due piroscafi al largo.
La sera del 5 maggio, con simulata violenza, Bixio prese possesso dei due piroscafi, e li condusse a Quarto. Garibaldi, per mettere al sicuro la responsabilità del Fauchè, scrisse una lettera ai direttori della società Rubattino, promettendo rifarli dei danni; ma la Società poco dopo punì il gerente, destituendolo; né più volle riammetterlo in servizio, reo di aver favorito la più grande e meravigliosa impresa dei nostri tempi.
Prima di partire Garibaldi scrisse al Bertani, commettendogli di raccogliere aiuti d’uomini e di danari, scrisse anche al Caranti, protestando sé non aver consigliato il moto di Sicilia, ma non poter restare inerte e impassibile alla lotta per la libertà che vi si combatteva. Al Re Vittorio Emanuele indirizzò altra lettera, nella quale pur ripetendo quelle proteste, aggiungeva: “So che io m’impegno in una impresa pericolosa, ma ripongo la mia confidenza in Dio, come nel coraggio e nell’abnegazione dei miei compagni. Il nostro grido di guerra sarà sempre: “Viva l’Unità d’Italia! Viva Vittorio Emanuele nel suo primo e suo più prode soldato”. Se non riusciamo, io spero che l’Italia e l’Europa liberale non dimenticheranno che questa impresa è stata decisa per motivi puri di ogni egoismo e veramente patriottici. Se riusciamo, andrò superbo di ornare la corona di Vittorio Emanuele di questo nuovo e forse più brillante gioiello”.
Indirizzò ancora un proclama ai soldati italiani, raccomandando la disciplina, ed esortandoli a non abbandonare le file dell’esercito, e a stringersi “a quel Vittorio Emanuele, la di cui bravura può essere rallentata un momento da pusillanimi consiglieri, ma che non tarderà molto a condurci tutti a definitiva vittoria”.
Nella notte del 5, i volontari, adunatisi a Quarto, si imbarcarono; eran mille e ottantacinque, compresa una donna, Rosalia Montmasson, moglie e compagna devota e infaticabile di Francesco Crispi: si divisero fra i due vapori: Bixio prese il comando del Lombardo, Garibaldi quello del Piemonte, e in sott’ordine Salvatore Castiglia, palermitano esperto di cose marine, esule pei fatti del ‘48. Prima ancora che albeggiasse, i due vapori salparono l’ancora, e s’avventurarono nell’ignoto infinito; e il cielo accompagnavali col dolce scintillio delle stelle, che parevan tremar di gioia e di orgoglio; e dalla terra i supremi addii dei parenti e degli amici rimasti, non osavan rompere l’alto ed eloquente silenzio: voto, augurio, speranza, compianto e stupore in un tempo.
Le navi bordeggiarono alquanto, aspettando le barche con le armi; non vennero, né si seppe mai se per tradimento o per dispersione; onde ripresero il navigare. A bordo del Piemonte, Garibaldi ordinò la legione; le mantenne il nome glorioso ed augurale di Cacciatori delle Alpi; e in un ordine del giorno, premesso che la missione dal corpo era basata sull’abnegazione più completa, senza allettative di gradi e di ricompense, dava come grido di guerra quello stesso che rimbombò sulle sponde del Ticino: “Italia e Vittorio Emanuele”. Divise il corpo in sette compagnie comandate da Bixio, Orsini, Stocco, La Masa, Anfossi, Carini, Cairoli; Sirtori nominò capo dello Stato maggiore, di cui fecero parte Crispi come commissario civile, Manin, Calvino, Majocchi, Grizziotti, Borchetta, Bruzzesi; Türr primo aiutante di campo; altri aiutanti Cenni, Montanari, Bandi, Stagnetti: Basso, segretario; Acerbi, Bovi, Maestri, Rodi all’intendenza; Ripari, Boldrini, Giulini medici.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno

Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (Consegna gratuita a Palermo - Consegna in tutta Italia)
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La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), La Nuova Ipsa (Via dei Leoni 79), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Bancarella (Via Cavour).

venerdì 18 aprile 2025

Luigi Natoli: la missione di Rosolino Pilo e Giovanni Corrao. Tratto da: Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860

Il Pilo e il Corrao veduto qualcuno del comitato messinese, sbarcate e nascoste le poche armi in luogo sicuro, raccolte notizie da Catania e dai dintorni, mossero alla volta di Palermo. Ma prima ragguagliarono d’ogni cosa i fratelli Orlando, che erano stati fra’più ferventi e operosi nell’aiutare e favorire l’impresa: ed erano autorevoli per integrità di carattere, bontà di costume, fede sincera e disinteressato patriottismo: e pregandoli di adoperarsi, perché non venissero meno gli aiuti dei fratelli della penisola, il Pilo, affermando “venuto il tempo d’essere audaci” aggiungeva: “Io sarò felice di poter dare tutto il mio sangue all’Italia nostra”. Scrisse anche a Garibaldi e a Bertani, e le lettere affidò al pilota Motto, pregandolo di salpar subito per recapitarle.
Pilo e Corrao partirono il 12 aprile in pellegrinaggio di propaganda, non temendo le compagnie d’armi e le colonne mobili e i birri, che la polizia avvertita del loro sbarco, avrebbe sguinzagliato sulle loro tracce. La polizia già da qualche tempo innanzi era stata avvisata dai suoi agenti; e sul finire del ‘59 il luogotenente generale aveva scritto al sotto-intendente di Termini, di un prossimo sbarco del “noto agente mazziniano Rosolino Pilo associato a uno dei fratelli Orlando”. Non di meno nulla seppe per allora dell’avvenuto sbarco, e i due audaci poteron procedere indisturbati nel loro cammino. A Barcellona un vecchio liberale, pauroso degli apparati del governo, li consigliò di non proseguire, comunicando che la rivoluzione di Palermo era fallita: rispose fieramente il Corrao di non esser venuti in Sicilia per ritornare indietro, e che avrebbero preferito consegnar la testa al carnefice, piuttosto che esular novamente: eran venuti per la rivoluzione e l’avrebbero fatta, tanto più che forse in quell’ora Garibaldi si apprestava a venire. Pilo abbracciò il compagno.
Ripreso il cammino, per dove passavano, convocavano i giovani, li esortavano a prendere le armi, insegnavano a costruire bombe; accendevan dovunque fiamme di libertà; e d’ogni cosa ragguagliavano con lettere ardentissime i fratelli Orlando, Garibaldi, Bertani, Fabrizi. Più s’avvicinavano a Palermo, e più visibili erano i segni della rivoluzione. Spediti messi sicuri al comitato di Palermo, e ricevuti soccorsi di denaro e promesse, Pilo convocò i principali e più vicini capi di squadriglie; e tosto convennero il La Porta, il Firmaturi, il barone di S. Anna, e poco dopo anche Pietro Lo Squiglio, già valoroso combattente in Palermo, e legionario siciliano in Lombardia nel 1848, scampato il 18 aprile al combattimento di Carini, serbato a più gloriosa morte dinanzi le mura di Palermo. Presi gli accordi e separatisi da quei capi, il Pilo, il Corrao e il Lo Squiglio qualche giorno dopo lasciarono Piana dei Greci, in tempo per sfuggire a una sorpresa. E difatti i cartelli sediziosi sparsi dal Comitato segreto di Palermo, nei quali si annunciava l’arrivo “dei prodi emigrati”; il ripreso coraggio dei “tristi”, come avvisava il luogotenente generale, che “si presentavano a una nuova riscossa”; le notizie delle spie, forse, avevano indotto il governo a ordinare l’occupazione di Piana dei Greci nella notte sopra il 25 aprile.

I tre valorosi, dopo una breve sosta al monastero di S. Martino, si ritirarono sull’altipiano dell’Inserra, che a cavallo di due vallate, dominava le strade e i sentieri, e offriva modo di scoprire ogni movimento delle truppe, e tenersi in facili comunicazioni coi comuni che maggior contributo avevano dato alla rivoluzione. Di là spedirono messi ai capi delle squadre, al comitato; rincorando i dubitosi, infondendo fiducia, promettendo il prossimo sbarco di due spedizioni una da Malta, l’altra da Genova con Garibaldi; le quali il Pilo, che vi credeva fermamente, sollecitava con lettere impetuose e forse esagerate.
Convocato un consiglio, deliberato di riorganizzare le disperse squadre per riprendere l’offensiva o almeno le molestie per stancar le truppe, Rosolino Pilo che aveva già sottoscritta una cambiale di sei mila lire, per aver danari, attese a eseguire quanto si era deliberato. Si stabilì il quartiere generale a Carini, non domata dagli incendi e dalle stragi delle truppe, generosa e pronta sempre; ed ivi si ordinò il corpo di operazione: Rosolino Pilo capo supremo, Corrao comandante di tutte le squadre, Pietro Tondù alla sopraintendenza, Giuseppe Bruno-Giordano all’ispezione dei corrieri e delle guide, Giovan Battista Marinuzzi ufficiale pagatore, i preti carinesi Calderone e Misseri, che si erano battuti in quei giorni, cappellani. Ogni paesetto dei dintorni mandò il suo contributo d’uomini e denari; Torretta quarantaquattro uomini e cento onze (1275 lire); Montelepre cinquanta uomini e cent’onze; quattrocento uomini i Colli di Palermo e Capaci; centocinquanta con la musica la Favarotta, cinquanta Tommaso Natale e Sferracavallo. Si aspettavano le ricostituite squadre di Partinico, Alcamo, Piana, Corleone, Misilmeri, Marineo. Corrao a mano a mano divideva queste forze in squadre di dieci uomini con un caporale; ogni dieci squadre formavano una centuria con un capo e un sotto capo.
Tra il maggio odoroso, e tra’colli e i giardini verdeggianti, il sole mirava quelle schiere esercitarsi alle prossime lotte. E intanto solcavano già il mar di Sicilia i due navigli che portavano Garibaldi e i Mille, la fortuna, la gloria della rivoluzione, l’unità della patria, il compimento di un sogno al quale, immolandosi, avevano aperta la via centinaia di martiri...


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Pagine 544 - Prezzo di copertina € 24,00
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Luigi Natoli: 18 aprile 1860, la strage di Carini. Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

Il comando militare, concertata un’azione simultanea delle varie colonne mobili, diede ordini di assalire gli insorti, che, indietreggiando dinanzi al soverchiare dei regi, si concentravano a Carini. La colonna Cataldo movendo da Partinico, quella del Bosco per Torretta e Montelepre, quella del Torrebruna, rinforzata da altre milizie per la via di Capaci dovevano prendere in un cerchio le squadre. Il 18 infatti gli insorti sono assaliti; si combatte accanitamente per parecchie ore tra forze ineguali: Carini vien presa dai regi del Cataldo, che si abbandonano al saccheggio e alla carneficina. Ma il movimento aggirante, per imperizia del Torrebruna, e per non essere arrivata in tempo un’altra colonna col tenente colonnello Perrone, non riesce: gl’insorti giungono ad aprirsi un varco e a ritirarsi sulle montagne, sebbene fulminati dai borbonici. Gl’incendi, le stragi di Carini indegnarono anche il re, che censurò vivamente la indisciplinatezza e la barbarie delle truppe; segnarono un altro debito verso la vendetta popolare. Dopo la presa di Carini, i comuni dei dintorni di Palermo ritornarono all’obbedienza; e la più parte degli uomini delle squadre, disanimati da una guerra senza speranza di vittoria, non vedendo giungere gli aiuti che erano stati promessi, non sorretti dalla fede nell’idea dell’unità che essi non capivano, adescati dall’indulto, gittavan le armi e ritornavano sottomessi nelle loro case. La causa della rivoluzione pareva perduta; quando il 20, Rosolino Pilo e Giovanni Corrao giungevano a Piana dei Greci, e con le rinate speranze riaccendevano il fuoco, non ancor domo. Pietro Piediscalzi, infaticabile, ardente, si unì tosto con loro e ricostituì la squadra, che poi tenne, fino alla morte, ai suoi ordini, pagandola del suo.
Spediti messi sicuri al comitato di Palermo, e ricevuti soccorsi di denaro e promesse, Pilo convocò i principali e più vicini capi di squadriglie; e tosto convennero il La Porta, il Firmaturi, il barone di S. Anna, e poco dopo anche Pietro Lo Squiglio, già valoroso combattente in Palermo, e legionario siciliano in Lombardia nel 1848, scampato il 18 aprile al combattimento di Carini, serbato a più gloriosa morte dinanzi le mura di Palermo.
Presi gli accordi e separatisi da quei capi, il Pilo, il Corrao e il Lo Squiglio qualche giorno dopo lasciarono Piana dei Greci, in tempo per sfuggire a una sorpresa. E difatti i cartelli sediziosi sparsi dal Comitato segreto di Palermo, nei quali si annunciava l’arrivo “dei prodi emigrati”; il ripreso coraggio dei “tristi”, come avvisava il luogotenente generale, che “si presentavano a una nuova riscossa”; le notizie delle spie, forse, avevano indotto il governo a ordinare l’occupazione di Piana dei Greci nella notte sopra il 25 aprile.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
Il volume comprende:
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La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
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lunedì 14 aprile 2025

Giuseppe Ernesto Nuccio: La fucilazione delle 13 vittime il 14 aprile 1860. Tratto da: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano.

I due ragazzi si fissarono negli occhi smarritamente: “Perché dentro il Castello avevan bisogno di tredici uomini? Giusto tanti quanti erano gli arrestati popolani?”.Ma dalle loro bocche non uscì la domanda tormentosa. Si scostarono alquanto e attesero. Dinanzi la porta e sugli spalti scorsero le sentinelle col fucile in ispalla a passeggiar concitate.
A un tratto, venne dall’atrio del Castello un tramestìo e un ronzìo alti, quasi l’avvicinarsi d’una processione salmodiante.
Sulla porta comparve un drappello di soldati a cavallo, seguito da un altro di soldati a piedi, che chiudeva tre file di uomini: a destra, una di preti con una gran croce rossa sul petto; nel mezzo, la fila dei condannati, coperti dal sacco, bendati gli occhi, legate le braccia alla schiena; a sinistra la fila dei tredici uomini chiamati un momento avanti dallo sbirro De Simone tra i quali c’erano lo zoppo e il villanello. Ai fianchi e alle spalle, i soldati a piedi e a cavallo con le baionette inastate.
- Li fucilano! – gemè Pispisedda con un soffio di voce.
Ferraù fece sentire un digrignare sordo.
I soldati avanzavano tutti con le schiene curve, le fronti chine. I condannati, invece, andavano eretti tutti e tredici e con quel loro atteggiamento che urlava ancora la sfida!
Pispisedda e Ferraù si mossero, fiancheggiando il corteo con l’animo straziato, quasi essi stessi fossero portati alla fucilazione.
Il corteo entrò nella via Piedigrotta. Gente s’affacciava spiando dai balconi, dalle finestre e tosto arretrava smarrita. E una dopo l’altra, tutte le imposte, tutte le porte si rinserravano. S’udiva alto ancora il salmodiare tristissimo dei crociferi, e il trepestìo uguale, soffocato s’accompagnava al mormorìo. Poca gente aveva animo di seguire il corteo.
- Don Giovanni Riso – disse qualcuno, con voce strozzata accanto a Pispisedda.
- Il poeta Camarrone – aggiunse un altro.
Così, uno dopo l’altro, a traverso il fitto velo nero, i condannati venivan riconosciuti dalla gente; e i nomi eran mormorati sommessamente come se la voce uscisse dalla gola smorzata dall’ambascia.
- Dove li portano, dove li portano? – gemeva Pispisedda andando cecamente, senza coscienza. Svoltarono a sinistra. Lo spiazzo di Porta San Giorgio era già zeppo di soldati i quali, come il corteo comparve, sospinsero la poca gente addietro, facendo il vuoto dal muro fino alla carraia.
- Qui li fucileranno? – fece Pispisedda, atterrito.
Il drappello dei soldati a cavallo, che precedeva il corteo, si allineò ad arco, dalla proda dell’altro marciapiede al muro delle case, gettando addietro qualche cittadino il quale si lasciava sospingere e quasi schiacciare come se avesse perduto ogni coscienza. Non s’udiva alcuna voce, alcun richiamo, alcuna protesta: parea un gruppo sperso di muti o di mentecatti, con occhi e bocche spalancati e braccia e gambe dinoccolate; ombre addossate le une alle altre, quasi a sostenersi.
Accadeva improvvisamente un fatto talmente straordinario che le menti sconvolte, disfrenate in un arrovellìo di pensieri tumultuanti erano cadute in un assopimento grave.
La realtà del momento era così incomprensibile da perdere i suoi veri aspetti.
- Che fanno? Li fucileranno, qui? – si chiedeva spasmodicamente Pispisedda stringendo il braccio destro di Ferraù. Ma quello, ciondolando, andava avanti e addietro, che pareva un ebbro; un ebbro tutto chiuso in un cupo pensiero.
Passavano ora i condannati fiancheggiati dai tredici cittadini spinti da De Simone e fiancheggiati dai tredici crociferi. Ma i condannati avevan diritta e rigida l’andatura; e levavano alti i piedi quasi tentassero di salir degli scalini: la benda stretta e spessa sui loro occhi doveva far cupo il buio, cupo come la morte imminente. Certo avvertivano quel mormorìo indistinto; forse sentivano su loro gli sguardi rigidi di occhi sbarrati, e camminavano sldi verso la morte.
- Che fanno. Li fucileranno, qui? – si chiedea spasmodicamente Pispisedda. Similmente forse ciascun cittadino si ripetea la medesima domanda, con lo stesso spasimo folle nell’animo.
E quando i condannati quasi toccarono il muro furono disposti in linea orizzontale: una fila nera, cupa come di fantasmi.
S’udì un ordine e la fila nera s’abbassò d’un tratto dimezzata. Pispisedda si rizzava sulle punte dei piedi e sbarrava gli occhi – quasi avesse voluto vincere un sonno pesante – e guardava ostinatamente. I condannati ora stavano in ginocchio. A uno a uno gli accompagnatori e i preti si staccarono, stentatamente e vennero avanti con quella grande croce rossa, sulla tunica nera, che pareva una larga macchia di sangue.
E la fila nera dei condannati parve ingigantirsi, allungarsi infinitamente, come se lo spazio si fosse raddoppiato, come se le case stesse si fossero arretrate improvvisamente.
E si fece un silenzio alto, cupo, come se i cuori stessi si fossero fermati.
E, quasi sbucassero improvvisamente dal suolo, tre file di tredici soldati, uno dietro l’altro, si piantarono nello spazio, di fronte alla fila nera dei condannati.
E il silenzio si fece più alto ancora e su tutti passò rapida, una zaffata di vento ghiaccio che gelò i cuori...


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1859-60.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad & figlio nel 1919, impreziosito dai disegni dell'epoca di Alberto della Valle.
Pagine 523 - Prezzo di copertina € 22,00 - Copertina di Niccolò Pizzorno.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna gratuita a Palermo, consegna a mezzo raccomandata postale o corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon e tutti i gli store online.
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), La Nuova Ipsa (Via dei Leoni 79), Libreria Nike (Via M.se Ugo), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102). 

Luigi Natoli: 14 aprile 1860, la fucilazione delle 13 vittime. Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.


Palermo, non ostante l’insuccesso, sebbene stretta fra i rigori dello stato d’assedio, gli arresti, le violenze di una polizia resa più feroce dalla paura, né taceva, né mostravasi sottomessa. Ai bandi, ai decreti, ai proclami dell’autorità, il comitato rispondeva con altri proclami, con invettive, con poesie satiriche; li scrivevano Francesco Gaipa, Serafino Lomonaco-Ciaccio, Pietro Messineo, Francesco Perrone-Paladini: le tipografie erano chiuse, ma non importava: si stampavano lo stesso. L’officina era in casa del Messineo in via Iudica: gli stampatori erano il Messineo, Ignazio Federico e il tipografo Giuseppe Meli.
Il 7 aprile, Maniscalco fece arrestare il duca di Monteleone, il cavaliere Notarbartolo di S. Giovanni, il barone Riso, il principe di Giardinelli e il duca di Cesarò, che trovò radunati in casa Monteleone. Il principe di Niscemi che era presente, non volendo abbandonare i suoi amici, si dichiarò reo della loro colpa, e offerse da sé i polsi alle manette: e la polizia non lo respinse: era una vittima di più, e non guastava. I sei giovani signori, circondati di birri, incatenati, furono a piedi condotti lungo il Cassaro, come malfattori; e il popolo commosso salutò, scoprendosi con riverente silenzio, il loro passaggio. Più tardi a bordo di un legno americano arrestò il padre Lanza. Due giorni dopo, faceva punire col fuoco, col saccheggio, le uccisioni degli inermi, il villaggio di S. Lorenzo.

In città e alle sue porte avvenivano zuffe e uccisioni, alternate con dimostrazioni. La sera del 7 furono tirati dei colpi contro la caserma della Sesta Casa, e fu uccisa una sentinella al Cancelliere; l’8 fu appiccato il fuoco contemporaneamente ai Commissa­riati di via Pizzuto, che bruciò tutto, e a quello di via Vetriera, che bruciò in parte; il 10, fucilate nel sobborgo dell'Olivuzza; birri bastonati in città; il 12 tutte le botteghe della via Toledo si chiusero per invito dei giovani Salvatore Bozzetti, Gaetano Borghese ed Eliodoro Lombardo, poeta e patriota, ingiustamente dimen­ticato: i quali fecero correre la voce di una dimostra­zione pel pomeriggio del 13. La cosa fu concertata dal padre Gustarelli, basiliano, dai tre giovani citati e da altri audaci, fra i quali si ricordano Rosario Ferrara, Giuseppe Lombardi, Antonio e Giovanni Orlando, An­tonino Stancanelli e altri. La folla era grande: il grido di Viva l'Italia, viva la libertà! rimbombò: dai balconi uomini e donne rispondevano; la polizia non seppe rea­gire. Ma il domani, per diffondere il terrore, Maniscalco, contro gli ordini del re Francesco, che, con due dispacci aveva ordinato si soprassedesse all'esecuzione delle sen­tenze di morte pei fatti del 4 aprile, affrettava la fuci­lazione di tredici prigionieri, condannati dal Consiglio di guerra nella “supposizione” che fossero tra’ capi della rivolta.

Nel pomeriggio del 14, tra lo squallore e il silenzio della città, al funebre rullare dei tamburi, i tredici martiri, circondati di birri e di soldati e confortati dalla voce di sacerdoti, tratti dal Castello, furono condotti ai piedi del baluardo di Porta San Giorgio; e lì fu compiuto l’assassinio.
I tredici corpi crivellati dal piombo, furono ancor caldi buttati, come carogne, in tre carri, e portati via in fretta, come se il rimorso o l’orrore del delitto incalzasse a cancellarne le tracce! Furono Sebastiano Camarrone (poeta), Domenico Cucinotta, Pietro Vassallo, Michele Fanaro, Andrea Coffaro, preso l’8 in Bagheria, Giovanni Riso (padre di Francesco Riso), Giuseppe Teresi, preso alla Guadagna, Francesco Ventimiglia, Michelangelo Barone, Nicolò di Lorenzo, Gaetano Calandra, Cono Cangeri e Liborio Vallone, preso il 12 a Monreale. Tutti popolani.
Ma la sera dopo fu tentato un altro assalto alla VI Casa e vi perdettero la vita due birri e un trombettiere. Successero alcuni giorni di tregua apparente. Il 20 circolò per la città questa epigrafe: A Francesco Riso – martire infelice della libertà della patria – non sospiri di letargo – non pianti di viltà – ma fieri giuramenti di sangue – fremito di vendetta atroce.




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La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
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Copertina di Niccolò Pizzorno
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Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15% - consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Su tutti gli store di vendita online e in libreria presso:
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venerdì 4 aprile 2025

Luigi Natoli: 04 aprile 1860. Intanto le squadre movevano sopra la città, come convenuto... Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

Le squadre raccolte nei dintorni, movevano intanto sopra la città, come era convenuto, credendo potervi entrare di sorpresa; ma s’incontravano nelle soldatesche regie, spedite dovunque. Piccoli e insignificanti scaramucce avvenivano a porta S. Antonino e a porta di Termini: al ponte delle Teste e, più in là, fra S. Maria di Gesù e la Guadagna, dove era fatto prigioniero Giuseppe Teresi, giovane poco più che ventenne, serbato al martirio.
Più gravi fazioni si combatterono ai Porrazzi, a Monreale, a Boccadifalco, a S. Lorenzo.
Ai Porrazzi, la squadra del Badalamenti e del Marinuzzi, fortificatasi in quelle ville, sostenne validamente l’attacco delle truppe, e non potè essere snidata che dall’artiglieria: ebbe feriti, e un morto, Andrea Amorello: a Monreale il maggiore Bosco, uno dei più valorosi ufficiali dell’esercito napoletano dovette fare sforzi incredibili, con la sua colonna, per non venir sopraffatto dalle squadre di Partinico e d’Alcamo; queste condotte dal barone S. Anna, che aveva già sollevato e proclamato il governo libero nella nativa Alcamo: quelle condotte dai fratelli Damiano e Tomaso Giani; il quale ultimo aveva fatto costruire a Partinico due piccoli cannoni di legno. E gli attacchi continuarono più giorni; in uno dei quali, il 12, a Lenzitti, cadevan morti Giuseppe Fazio da Alcamo, giovane ventiduenne, e Pietro Tagliavia e Giuseppe Ricupati di Partinico, e veniva fatto prigioniero e condotto a Palermo Lorenzo Vallone, alcamese; e più tardi, da un caporale dei compagni d’arme, veniva in quei luoghi dissotterrato e trasportato al Castello a mare di Palermo, uno dei due cannoni di legno, abbandonato dagli insorti (l’altro essendo scoppiato al primo colpo): che è forse quello che si conserva al Museo.
Lo stesso Bosco scampò miracolosamente alle fucilate dei fratelli Trifirò.
II villaggio di S. Lorenzo, era stato occupato da un battaglione di fanteria comandato dal maggiore Polizzy, che doveva sbarrare il passo a numerose squadre, di cui il posto telegrafico di Sferracavallo aveva segnalato la presenza fin dal 2. Erano squadre di Capaci e di quelle contrade che s’andavano ad aggregare a quelle di Carini.
La mattina del 3, il prete Calderone in Carini uscito in piazza, col Cristo in mano, aveva chiamato il popolo a raccolta; suonate a stormo le campane, costituito un comitato, col Tondù, coi fratelli Francesco e Antonino Ajello, Antonino Correri, il padre Messeri, Vincenzo Leone, Francesco Cavoli, un Oliveri e altri, si formarono le squadre, che si misero in marcia verso Palermo. A Sferracavallo, ucciso un birro, saputo che una colonna moveva per S. Lorenzo, ripiegarono, e per le campagne, risalirono a Passo di Rigano, dove incontrate altre truppe regie, e attaccate da esse, vennero disperse. Molti fuggirono a Carini; i più furono raccolti e s’unirono ai Colli con la squadra di Carmelo Ischia e Francesco Ferrante.
Il Bruno-Giordano, andato ai Colli la sera del 3, per fornire di munizioni la squadra di Carmelo Ischia, trovata nel ritorno la via sbarrata stimò più opportuno rifare il cammino, mettersi alla testa di quella squadra e di quanti uomini poteva raccogliere, e attaccare i regi. Un primo scambio di fucilate avvenne lo stesso giorno 4; il Bruno guadagnato il quatrivio di S. Lorenzo vi si fortificò, e il 5 e il 6 vi sostenne contro le truppe regie rinforzate di altre compagnie di fanti, di cavalleria e cannoni, vivi e ostinati combattimenti, nei quali la virtù e la grandezza dell’idea prevalsero sul numero: i regi costretti a indietreggiare fino ai Leoni, lasciarono sul campo nove tra morti e dispersi e ventuno feriti, fra cui un ufficiale. I documenti borbonici chiamarono il combattimento del 5 “una vera battaglia”; e non potevan meglio tessere le lodi di quel pugno di valorosi, che per tre giorni tennero in scacco forze maggiori e meglio armate.


Luigi Natoli: Fa parte di: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
Pagine 544 prezzo di copertina € 24,00
Il volume comprende:
Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
Copertina di Niccolò Pizzorno
Il volume è disponibile:
Dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (Consegna in tutta Italia, consegna gratuita a Palermo).
Disponibile su Amazon e tutti gli store di vendita online.
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La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita centro commerciale Conca d'Oro), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), La Nuova Ipsa (Via dei Leoni 79).

Giuseppe Ernesto Nuccio: 04 aprile 1860, il massacro nel Convento della Gancia. Tratto da: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano.

Ma ecco che sul campanile, la voce della campana che chiamava i cittadini s’è spenta, e nella scala è uno scalpore di gente che scende a precipizio. Pispisedda si muove alfine con uno sforzo grande e scorge al sommo della scala a chiocciola alcuni armati. Avanti a tutti ecco Gaspare Bivona e Filippo Patti che scendono guardinghi, curvi, i fucili nella destra. A mezzo la scala si fermano indecisi, quindi, uno dietro l’altro, piegandosi, s’imbucano per una piccola porticina.... L’ultimo, prima di entrare, guata intorno. “Vanno nel soffitto” dice Pispisedda, e torna indietro, scende, attraversa il corridoio; occhieggia oltre gli usci delle celle. I sette monaci sono tuttavia addossati in un angolo, sgomenti, con gli occhi di traverso sull’uscio donde verrà la morte.... Frate Giovannangelo è anche lui nella sua cella e sta ancora a pregare; ma è sereno ora, come aspettando la morte. E Pispisedda corre ancora verso giù. La campana della porta del convento suona alla disperata e quando tace segue il rombo del cannone e il crepitìo delle fucilate.
E Pispisedda scende a precipizio. Perché? Dove va? Non sa nulla, non ha deciso nulla. Non può star più fermo, altrimenti gli scoppia il cuore. Ecco, gli par di scorgere don Ciccio Riso fatto gigante e combatter da solo con un esercito infinito e uccider soldati a montagne....
E Pispisedda corre ancora, impazzato, alla ventura, senza mèta. Eccolo già al piano terreno; attraversa il corridoio; travede il cortile, la porta mezzo sfondata; e, presso la porta, Francesco Riso attorno ad alcuni morti. Pispisedda avanza istintivamente: Francesco Riso carica a stento il fucile; sta per prender la mira; s’ode uno scroscio! una scarica lo coglie, trempella, arranca con le braccia e si piega su se stesso.
Un urlo altissimo segue la sua caduta e fa arretrare Pispisedda. Ecco, ecco i soldati che dànno addosso alla porta, Pispisedda arretra sempre più.... e la porta sobbalza sotto i colpi, si squarcia e l’orda dei soldati irrompe urlando, nel cortile.
Pispisedda balza come un capriolo, rifà il corridoio, s’imbuca per la porticina segreta, e via per Terrasanta, a lanci come un gatto. Presso la panetteria tumultua un nugolo di soldati, ferendo e bastonando i monaci urlanti e gementi; ma Pispisedda non s’arresta, urta, spinge, balza su uno, due soldati, avventando pugni e morsi, infine taglia il gruppo, e, rapidissimamente, come una saetta, balza fuori attraversando altri gruppi di soldati....
Egli si sentiva ora, nell’animo, uno sfinimento grande, come se morta fosse per sempre la bella speranza ch’egli avea curata giorno per giorno con fervore sempre più acceso. E lo prendeva ora il vivo desiderio di morire. Perchè non s’era fatto uccidere là accanto a Francesco Riso ch’era caduto magnificamente come il più bello e il più glorioso paladino? E Pispisedda chiudeva gli occhi; ma il vento portava fino a lui, laggiù, un crepitìo attenuato, come di fucilate esplose dentro il chiuso.
E il ragazzo abbrividiva; intravedendo, con un tremito spasmodico, l’orda dei soldati scagliatisi come un nembo di procella dentro il convento e dilagar per le scale e per i corridoi e le celle, colpendo con le baionette i monaci genuflessi a pregare e gli insorti appostati presso le soglie o negli angoli.
Non potendo resistere all’angoscia, Pispisedda se ne rivenne verso la Gancia.
Salvatore La Placa, nello stesso momento in cui don Ciccio Riso saliva sul campanile, s’era buttato, con la squadra della Magione, in via Vetriera, per riunirsi a quelli ch’erano dentro Terrasanta; ma trovando la via sbarrata dal capitano Chinnici e dai compagni d’arme, anzichè indietreggiare aveva tentato di sfondar la compagnia. Così era cominciato un attacco. Nello stesso tempo Sebastiano Camarrone e Giuseppe Aglio si erano buttati sotto l’arco piccolo di Santa Teresa attaccando e facendo sbandare una compagnia di soldati. Ma Salvatore La Placa, colpito da una fucilata, s’arrovesciava mezzo morto sull’acciottolato. I compagni d’arme sorretti da nugoli di soldati, avanzavano sempre e quelli delle squadre badavano a tener testa sparando.
Salvatore La Placa era caduto fra due fuochi! Se giungevano i soldati lo finivano a baionettate. Ma tosto uscivano da una casetta alcuni palermitani pietosi e lo sollevavano e lo recavano dentro. Aveva uno squarcio nel petto e il sangue abbondava. Bisognava farlo ristagnare; e quelli spaccavano una gallina viva e la premevano sulla ferita.
- Per questo, quando nella fuga avevo cercato riparo dentro la casetta, mi fecero tirar diritto, dicendo che ci avevano un ferito. Era dunque La Placa il ferito – disse Pispisedda.
Sbucaron nella piazzetta del Cavallo marino e don Gaetanino tacque. Porta Felice era chiusa da una folla di soldati e anche il tratto di via Toledo, che correva da Porta Felice a piazza Marina, ne era zeppo.
E venivano altri cittadini a sorbire il caffè e a gettar rapidamente altre notizie: don Ciccio Riso era caduto col ventre squarciato da tre palle e col ginocchio spezzato. Il birro Ferro, vedendolo cadere, gli avea avventato un colpo di baionetta. Dei compagni di Francesco Riso, il primo a cadere ferito era stato Giuseppe Cordone; sporgendosi oltre la porta di Terrasanta per meglio tirar sulla truppa, una palla gli avea trapassato il collo. Il convento e la chiesa erano stati saccheggiati; feriti i monaci fra David, fra Luigi, fra Giovambattista, fra Venanzio; percossi tutti gli altri e i soldati s’eran bevuto nel convento più vino che avevano potuto e avean fatto man bassa di tutto: arraffando ogni oggetto degli altari, delle celle, della sagrestia e delle cantine; usando delle tonache dei frati come di sacchi.
Pispisedda scattava ad ogni racconto di nuova infamia e, infine, non riuscendo a durarla chiamò don Gaetanino per allontanarsi.


Giuseppe Ernesto Nuccio: Picciotti e Garibaldini. Romanzo storico siciliano ambientato a Palermo durante la rivoluzione del 1860. La rivoluzione vissuta e narrata dai ragazzini palermitani.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Bemporad nel 1919. Impreziosito dalle illustrazioni dell'epoca di Alberto della Valle.
Prefazione del dott. Rosario Atria.
Pagine 522 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (consegna in tutta Italia, consegna gratuita a Palermo). 
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La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour e punto vendita Centro Commerciale Conca d'Oro) Libreria Nike (Via M.se Ugo 56), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi 15), Libreria Macaione (Via M.se di Villabianca 102), La Nuova Ipsa (Via dei Leoni 79).

Luigi Natoli: E venne l'alba del 4 aprile... Tratto da: La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione

E venne l’alba del 4, dopo una notte che dovette parer lunga alle anime, aspettanti fra le armi il segnale convenuto. Avevano esse il presentimento che il loro segreto era stato tradito?
Forse l’ebbe Francesco Riso, l’aveva avuto anzi qualche giorno prima, quando all’avvocato Pennavaria aveva detto “Ho dato la mia parola, e sebbene son persuaso che nel pericolo mi abbandoneranno, non la ritiro”. Egli ignorava che il convento era bloccato: e nessuno, vedendo tanto apparecchio di milizie, lo avvertì anzi dicesi che nella stessa notte, da qualcuno che mancò al convegno, il Maniscalco fosse stato avvisato dell’imminente rivolta, con un biglietto scritto a matita colorata, che ancora si conserverebbe all’Archivio di Stato fra le carte della polizia. A me non costa; ma fu detto da persona che ebbe l’agio di vedere documenti dell’Archivio, che ora è vietato.
Poco prima dell’alba, Riso mandò qualcuno a esplorare la vicina piazza della Fieravecchia dove doveva essere sparato il mortaretto: il messo la trovò deserta, il che parve cattivo indizio, e scorò qualcuno; ma fu un baleno. Alle cinque del mattino, Riso mandò sul campanile della chiesa Nicola Di Lorenzo e Domenico Cucinotta con bombe all’Orsini, appostò là altri compagni, e si avviò con alcuni de’suoi alla porta d’uscita. Al suo apparire una pattuglia di compagni d’armi in agguato gridò: – Alto, chi va là? – Rispose: – Chi viva? – Viva il re! –Viva Italia! – ribattè il Riso, e tirò due colpi di fucile, che uccisero il soldato Cipollone. Fu il segno dell’attacco. Il Di Lorenzo ed il Cucinotta suonano a stormo le campane; il Riso corre al campanile, e piantata la bandiera tricolore, ritorna giù a sostenere il fuoco: cadono Giuseppe Cordone, Mariano Fasitta, Matteo Ciotta, Michele Boscarello e Francesco Migliore. Agli spari e allo scampanio, accorre per la Vetriera la squadra della Magione: Sebastiano Camarrone e Giuseppe Aglio, audaci, girando sotto l’arco piccolo di S. Teresa, respingono un plotone di soldati; ma invano. Cade Salvatore La Placa, ferito al petto, e raccolto da pietosi e celato, scampa così all’eccidio. Guaritosi appena, corse poi a raggiungere le squadre, combattè il 27 maggio a Porta Carini, e fu ferito alla gamba.
La squadra della Zecca, uscita anche essa, trovatasi di fronte al grosso della truppa, e non potendo affrontarla si disperse.
Tra il fumo, gli spari, gli urli, parte della squadra ripara nel convento. Il Riso grida energicamente: “Coraggio; la città sta per insorgere; sostenetemi tre ore di fuoco, e saremo salvi”.
E intanto le campane squillavano sulle fucilate, e pareva chiamassero disperatamente la città, che o impreparata o sgomenta non si moveva, e lasciava compiere il sacrificio; squillavano, terribile voce di libertà, non ostante la sconfitta. ll generale Sury appunta i cannoni contro il campanile per far tacere le campane: atterra la porta del convento con gli obici, e allora i regi, fanti, cacciatori, artiglieri, compagni d’arme si lanciano all’assalto. Per snidare gl’insorti, il tenente Bianchini porta a braccia un obice sul piano superiore del convento. Gl’insorti si sbandano: Giuseppe Virzì e Bartolomeo Castellana, sbarazzatisi delle armi, si buttan dall’alto e si rompono le gambe: raccolti da buona gente e occultati, e dopo alcuni giorni portati all’ospedale come muratori precipitati da una fabbrica, così scamparono alla strage. Francesco Riso, colto da quattro palle al ventre e al ginocchio cade. La sua caduta mette fine alla resistenza.
Padroni del convento, le soldatesche del pio re si sfogarono in inutili violenze e col saccheggio. Uccisero di piombo il padre Giovannangelo da Montemaggiore; ferirono i frati David da Carini, Luigi e Giovambattista da Palermo e Venanzio da Sampiero; gli altri schiaffeggiarono, percossero, sputarono; depredaron tutto quel che trovarono, perfino il vasellame sacro, disperdendo le ostie consacrate nelle quali pur credevano. Caddero in poter loro alcuni insorti: testimoni oculari narrano di un birro, che rubato l’orologio al Riso, caduto per terra, lo ferì di baionetta all’inguine; e di un altro che finì ferocemente un giovane insorto ferito e impotente a muoversi.
Il Riso, posto sopra una carretta, fu trasportato all’ospedale di S. Francesco Saverio; ove giunto, all’infermiere Antonino Gallo, che scrivendone nei registri – come per legge – nome, paternità, gli domandava della professione, rispondeva: “Congiurato”; e non intendendo l’altro, e ripetendo la domanda, egli riconfermava: “Congiurato: cospiratore per la libertà del mio paese”.
Gli altri insorti presi, feriti, pesti, legati a due a due in catena coi frati, stretti fra gendarmi, fanti, compagni d’armi, furono trascinati parte alla prefettura di polizia, parte al comando di Piazza, dove ora è il tribunale militare; ed ivi trasportati anche i due cannoncini di ferro esagonale, lance, bombe, fucili trovati nel magazzino, e dicono, un cannone di legno, la cui esistenza è però fieramente contestata da testimonianze assai gravi. Vani trofei di una vittoria ottenuta col tradimento, per forza di numero, della quale la Giustizia segnava nei suoi libri la vicina irrevocabile vendetta.


Luigi Natoli: Fa parte di: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
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Premessa storica tratta da "Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo" ed. Ciuni 1935
La rivoluzione siciliana nel 1860. Narrazione (Comitato cittadino pel cinquantenario del 27 maggio 1860 - Palermo 1910)
Di un volume di documenti sulla rivoluzione siciliana del 1860 e sulla spedizione dei Mille (Estratto dal mensile "Rassegna storica del Risorgimento anno XXV - Fasc. II Febbraio 1938 - XVI)
I più piccoli garibaldini del 1860 (Estratto "La Sicilia nel Risorgimento italiano - Anno 1931)
Rivendicazioni attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848-1860 (Cattedra italiana di pubblicità - Editrice in Treviso 1927)
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mercoledì 17 luglio 2024

Luigi Natoli: Il battaglione Corrao e I Figli della Libertà nella battaglia di Milazzo. Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento

Sceso sulla strada, il Gene­rale ordinò al Missori di spingere all'assalto parte del battaglione Dunne, i giovanetti figli della Libertà, che fremevano, come puledri che urtano allo stabio, per cor­rere nei campi.
Al batter della carica, quei giovinetti si lanciarono contro la mitraglia. Il fuoco del nemico si concentrò sopra di loro, seminando la morte nelle loro file; ma nulla tratteneva quei lioncelli, l’ardimento dei quali parve mirabile allo stesso Garibaldi. 
Qualche mese in­nanzi, laceri, sporchi, oziosi, predestinati al carcere o all'ospedale, alunni del vizio, quei giovanetti, di cui i più vecchi non toccavano ancora diciotto anni, erra­vano per le vie e le piazze di Palermo; la rivoluzione li redimeva, li nobilitava, insegnava loro la grande virtù del sacrificio, ne faceva degli eroi. Superando siepi e canneti, arrampicandosi sui muri, lasciando parte di loro per la via, respinsero i vecchi e fieri cacciatori, si impadronirono del cannone.
Qui avvenne l'episodio della cavalleria, variamente raccontato dagli storici, nel quale ogni attore vide e magnificò il proprio gesto. Raccogliendo le varie redazioni, parmi poter qui ristabilire la verità, dando a ciascuno il suo.
Per incoraggiare i giovani volontari siciliani, Gari­baldi era disceso a piedi sulla strada, con Missori, che era ritornato al suo fianco. Non è vero che c'era anche Statella; Statella, ferito poco innanzi, era stato portato nelle ambulanze. I giovanetti e i cacciatori siculi si affrettavano a trainare il cannone, quando le file bor­boniche si aprirono, e diedero il passo allo squadrone della cavalleria, che si lanciò all'assalto per riprendere il pezzo. Nuovi, anzi inesperti alla scherma contro la cavalleria, i volontari presi da momentaneo sgomento, invece di opporre un forte gruppo, si aprirono in due, forse con l'intenzione di sbandarsi ai lati dello stradale: ma lo stradale era fiancheggiato da fitte siepi di fichi d'India, che impedirono la fuga; costretti da questo ostacolo, per difendersi si voltarono; la voce dei capi, li incoraggiò.
I cacciatori a cavallo, per l'angustia della strada non potevano galoppare a squadrone serrato, ma un dietro l'altro.
Giunsero tra le due file, e i primi non potendo per l'impeto del galoppo, frenare in tempo i cavalli, tra­scorsero oltre le linee; ma da una parte e da l’altra le scariche dei giovani volontari, atterrando cavalli e cava­lieri impedirono al resto d'avanzarsi. Circa venticinque cacciatori col capitano Giuliani e il luogotenente Faraone rimasti tagliati fuori, si affrettarono a tornare indietro. Il tenente Rammacca si para innanzi per affrontarli; il capitano Giuliani gli cala un fendente, che vien parato da un cacciatore siculo. Il sergente Santi Tumminello affronta il tenente Faraone, e con un colpo di baionetta alla gola lo rovescia da cavallo, gli toglie la spada, il revolver e il cavallo.
Il Giuliani, si lancia sopra Garabaldi, e alla intima­zione di arrendersi risponde con un fendente, Garibaldi para il colpo, e afferrato il cavallo per la briglia, dà un colpo di punta alla gola del Giuliani e l’uccide. Mis­sori fa fuoco col suo revolver sopra due altri cavalieri, e li atterra, sebbene i documenti borbonici affermino in modo assoluto, che i cacciatori a cavallo uccisi in quell'episodio furono tutti feriti di arma bianca.

La storia raccolse il gesto del Missori, per la noto­rietà del prode e audace comandante delle guide: non raccolse quello degl’ignoti giovanetti di Corrao e di Dunne, di quei “Picciotti” che aspettano ancora lo sto­rico il quale raccolga, illustri e glorifichi gli episodi di valore e d'eroismo da loro offerti in gran copia, e senza vanità. Eppure la lettera del Dumas al Carini non tace quel che essi fecero; ed essa è confermata dalle rela­zioni Corrao e Rammacca, scritte allora allora. Si vegga dunque quanto sia veritiera l’epigrafe dettata dal Pascoli.
Stupirono i figli della Libertà per lo slan­cio all'assalto e per la resistenza al fuoco. Quando due mesi dopo Garibaldi si apparecchiava per muovere sopra Capua, volle con sè due battaglioni dei nostri giovinetti, e li fece trarre dall'istituto eretto in Palermo nel giu­gno e diretto allora da Alberto Mario.
- A Milazzo – disse al Mario – ho veduto come si battono questi demoni....
E fino agli ultimi suoi anni il valoroso sir Dunne ricordava i “Picciotti” del suo battaglione; e venendo in Italia non tralasciava di domandare se ve ne fos­sero ancora vivi. Fino a pochi anni or sono ce n'erano ancora, e nell'ombra dell'oblio e della povertà si gloria­vano d'essere stati di quel battaglione; e uno dei super­stiti era un Raimondi, reso popolare da un giornaletto, che ignorava forse come pel valore spiegato a Milazzo, il piccolo Raimondi era stato promosso caporale sul campo.
Ma nessuno fuor del Dumas ha consacrato una parola agli eroici giovinetti di Dunne mietuti dalla mitraglia, nè ai cacciatori di Corrao, tre volte ostina­tamente andati all'assalto, e alle cui baionette si deve se Garibaldi non cadde sotto l’impeto della cavalleria borbonica.
Non un marmo dedicato alla virtù di questi oscuri eroi, che la nostra irriconoscenza, la nostra inferiorità civile, ha lasciato sepolti nell'ignoranza! E soltanto per questo, narrando della giornata di Milazzo, io mi son trattenuto a rievocare la parte presavi dai Siciliani, non lieve, nè secondaria. E non per gretto campanilismo, ma per sentimento di giustizia, tanto più doveroso, in quanto anche oggi, con tanto lume di documenti, si ripetono e si consacrano errori, e si perpetuano omissioni e silenzi imperdonabili.


Luigi Natoli: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento.
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Luigi Natoli: L'inglese Dunne costituiva un battaglione di ragazzi, che chiamò "I figli della Libertà". Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento

Già altre milizie nel fervore di quei giorni s’an­davan formando; e a preparar futuri soldati e sottouf­ficiali volgeva l’animo il Dittatore fra le cure del go­verno.
Essendo giunto in quei giorni Alberto Mario con la moglie Jessie Withe, Garibaldi gli diede incarico di istituire un istituto o collegio militare, per raccogliervi tutti i ragazzi orfani o randagi o abbandonati a sé stessi; destinati forse ad accrescere il numero dei delinquenti, salvati o redenti ora dal nobile fine a cui Garibaldi li chiamava. Il Mario si mise all’opera alacremente, e ben presto il collegio accolse un migliaio di giovanetti, i più vecchi dei quali non avevano diciassette anni: li vestì, li disciplinò, li istruì. Il collegio prosperò; un mese dopo accoglieva altri mille giovanetti, ne formò due battaglioni che diedero esempio maraviglioso di eroismo.
Contemporaneamente l’inglese Dunne, grande e fer­vido amico dell’Italia, a sue spese costituiva un bat­taglione di ragazzi e giovinetti della strada, che chiamò “i figli della Libertà” e li vestì di bianco, li armò di fucili scelti, e ogni giorno li conduceva al campo, eser­citandoli; sicché in breve di quei giovanetti, fin allora vissuti nell’ozio e nell’ignavia, fece dei cittadini e soldati che stupivano per arditezza d’aspetto e spirito di di­sciplina, e che più tardi a Milazzo fecero prodigi di valore...


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mercoledì 26 giugno 2024

Luigi Natoli: La morte di Raffaele De Benedetto e di Giuseppe Mazzini. Tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo.

Tra i processi che si dilungarono e che si chiusero con la condanna alla fucilazione di tre rivoltosi e molti a pene minori, ebbe luogo la campagna garibaldina del 1867 per la conquista di Roma, con il suo epilogo di Mentana. Alla Sicilia costò la vita di Raffaele De Benedetto, colpito in fronte, cui furono rese solenni onoranze; gli fu innalzato un monumento in San Domenico di Palermo, dove è sepolto con la madre e coi fratelli Pasquale e Salvatore. 
Dopo l’impresa di Roma del 1870, furono promulgate le leggi eccezionali contro il brigantaggio, che sollevarono in tutta l’Isola viva agitazione, ritenendosi quelle leggi un’offesa, poichè a distruggere il brigantaggio sarebbero bastate le leggi comuni e una Pubblica Sicurezza ordinata.
La morte a Pisa di Giuseppe Mazzini (10 marzo 1872) sollevò un gran cordoglio in tutta l’Isola. Con la morte di Vittorio Emanuele II e poi di papa Pio IX, a distanza di un mese, sparivano le più grandi figure del Risorgimento e con loro le grandi divisioni di partito, che si erano formate nell’Isola.
Il sesto centenario della rivoluzione del Vespro fu celebrato con dignitosa prudenza verso la Francia e con una magnificenza mai vista, prendendovi parte tutti i comuni dell’Isola con i propri gonfaloni, e a cui aggiungeva splendore la presenza di Garibaldi, che prima di morire volle visitare i luoghi gloriosi delle sue gesta. Infatti l’Eroe morì il 2 giugno di quell’anno 1882.
A Catania il deputato De Felice aveva organizzato vaste associazioni di uomini e donne, detti «fasci di lavoratori» che si erano diffuse in tutta l’Isola. Nel 1893 insorsero, si disse che sarebbero state seguite nella rivolta dalle altre associazioni della terra ferma. Il pericolo era grande ed imminente. Così si ricorse a Francesco Crispi, già segnalatosi per il suo valore di vero e profondo uomo di Stato, quale non si era avuto dopo Cavour. Egli, salito al potere, soffocò con prontezza i moti e riportò il paese nella legalità.
Dopo di essere stato più volte a capo del governo e di avere con mente acuta e lungimirante provveduto perchè l’Italia all’estero acquistasse l’importanza di grande nazione, Francesco Crispi cadde sotto la valanga di calunnie che sopportò con animo grande, nobilmente fiero.
I successori disfecero quello che egli aveva fatto, ridussero l’Italia in condizioni peggiori tra mezzucci e traffici di politica interna, finchè venne la guerra contro l’Austria, che fu una volta ancora cementatrice dei sentimenti nazionali, fecondi in ogni tempo delle più larghe fortune dell’Isola...
(Nella foto: Raffaele De Benedetto) 


Luigi Natoli: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo. L'opera è la fedele trascrizione del volume originale pubblicato dalla casa editrice Ciuni nel 1935.
Pagine 509 - Prezzo di copertina € 24,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Il volume è disponibile:
dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (sconto 15% - consegna a mezzo corriere in tutta Italia)
Disponibile su Amazon prime e tutti gli store di vendita on line.
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Luigi Natoli: L'arresto di Giuseppe Badia e la rivolta del Sette e Mezzo. Tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo.

Nel 1865 fu arrestato Giuseppe Badia, ex colonnello garibaldino repubblicano che si diceva a capo delle bande. Ma i tumulti si rinnovarono e crebbero con la legge di soppressione delle corporazioni religiose, che, spostando interessi, gettava sul lastrico nuove famiglie avvezze a vivere su di essa.
Parve agli anonimi oppositori del regime giunto il momento della rivolta, ma prevalse il concetto di aspettare che il Governo fosse impegnato nella guerra, che pareva imminente, per potere essere più sicuri della riuscita. Scoppiò la terza guerra per l’indipendenza nazionale contro l’Austria; e Palermo, approfittando che le truppe erano occupate sul campo nell’Alta Italia, insorse.
Le cause della rivolta sono da ricercare nella profonda insofferenza della popolazione; difficile è però trovarne gli autori: i borbonici da soli, pel loro fine, non potevano, i repubblicani non avevano seguito; la notizia che una loggia massonica avrebbe coordinato il moto di Palermo con quello che sarebbe scoppiato a Genova, è molto incerta. Certo si è che la vigilia del 16 settembre 1866 le bande della campagna erano già pronte e che quel giorno si presentarono al prefetto Torelli alcuni egregi cittadini per scongiurarlo di «battere la generale» e chiamare la Guardia nazionale alle armi, perchè le bande erano alle porte della città. Il prefetto disse che non valeva la pena di disturbare tanti padri di famiglia per un attacco di contrabbandieri. 
Le stesse cose dichiarò il questore Pinna, con assoluta incomprensione del momento.
L’indomani all’alba le bande entrarono in Palermo e per sette giorni la tennero. C’era un comitato di persone presieduto dal principe di Linguaglossa, costretto dalle bande, c’erano degli uomini di nessuna autorità che facevano sventolare una bandiera al grido di Viva la Repubblica, ma senza averne coscienza.
Il giovane marchese Rudinì, sindaco di Palermo, tentò di opporsi con poche guardie che accorsero spontaneamente, ma fu costretto a ritirarsi al Palazzo Reale. Gli insorti saccheggiarono qualche casa, ma in verità non sapevano e non vedevano dove la rivolta giungesse; e all’ultimo quelli che credevano capi fuggirono e li lasciarono soli contro i rinforzi, che, dato l’assalto alle barricate, domarono la città.
Non mancarono le fucilazioni senza processo; undici cittadini presi a caso furono addossati al muro e passati per le armi. Ma furono i soli. Cominciò la reazione; il generale Cadorna accusò il cardinale Naselli; furono arrestati cittadini illustri come Benedetto d’Acquisto, vecchio ottantenne, filosofo, il principe De Spuches, traduttore di Euripide, e altri cittadini come componenti del moto; si imbastì una relazione firmata dal Cadorna che riversava tutta la responsabilità sui borbonici e sui frati. Il moto di Palermo rimase isolato e non ebbe seguito in nessuna parte della Sicilia. Gli atti di crudeltà attribuiti a qualche comune sono leggenda.


Luigi Natoli: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo. L'opera è la fedele trascrizione del volume originale pubblicato dalla casa editrice Ciuni nel 1935.
Pagine 509 - Prezzo di copertina € 24,00
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